In appendice al post su Lord Jim aggiungo che mi colpì, leggendo questo romanzo, il fatto che Conrad facesse partire Jim per Patusan portando con sé solo una pistola – ricevuta da Stein, trafficante tedesco in terre coloniali – e le opere complete di Shakespeare. In seguito lessi che anche Conrad quando era sottufficiale sulla nave Palestine nei Mari del Sud aveva con sè l’opera di Shakespeare.
Un dettaglio autobiografico che è anche indizio di una fonte di ispirazione.
In effetti ci sono in Lord Jim vari aspetti che rimandano a Shakespeare: l’isola di Patusan, lontana da ogni rotta e scenario della signoria di Jim, evoca in qualche misura l’isola di cui è signore (lord) Prospero nella Tempesta.
E in tutti e due i casi tale signoria si configura anche come allusione al dominio coloniale dei bianchi europei, portatori di pistole e insieme di una cultura/lingua che si ritiene e vorrebbe imporsi come naturalmente superiore.
Prospero tenta di educare l’indigeno Calibano – che gli ha insegnato da parte sua la bellezza e le ricchezze della sua terra amandolo con ingenuità infantile – ma non ne sa ascoltare né le ragioni né la primitiva poesia, e vive quella sua selvaggia diversità come irriducibile inferiorità e ingratitudine. Gli rinfaccerà infatti :
“Per pietà di te ti portai con fatica a parlare come noi. Passo passo ti insegnavo quando una quando un’altra cosa; e quando tu, selvaggio, non sapevi articolare nemmeno i rudimenti del concetto e farfugliavi appena, impasto di materia bruta, io ti dotai delle parole necessarie a esprimere i pensieri. Ma la tua vile natura, sebbene pronta ad apprendere, aveva in sé ciò che rende impossibile la convivenza a anime bennate. Perciò ti segregai in questa roccia…”
“Prendendo per te“, gli urla Calibano, “tutto il resto della lussureggiante isola di cui io ero per nascita il re!” E aggiunge: “Tu mi hai insegnato a parlare la tua lingua, e tutto il vantaggio che io ne ricavai fu questo: che ho imparato a maledire!”
Shakespeare come sempre penetra nel cuore del discorso e, pur non prendendo una posizione dichiaratamente anticolonialista, con la sua stupefacente capacità di capire le ragioni di ciascuno, per quanto lontano esso sia dal suo mondo, rivela la verità circa la relazione tra i due.
Jim, armato di pistola e di Shakespeare, si fa protettore idealista dei miti indigeni di Patusan e ne diventa il Signore – in questo evocando in pallida controluce anche la famosa e terribile, megalomane figura di Kurtz, di Cuore di tenebra. Li ama, ne è amato, eppure, nota Marlow, per lui quegli indigeni restavano “come le figure di un libro” . E ancora: “Pareva amare il paese e la sua gente con una specie di feroce egoismo, con una sprezzante tenerezza.”
Il suo atteggiamento non ha la durezza di Prospero verso Calibano, ma è pur sempre quello di chi non riconosce agli indigeni la pienezza di umanità che riconosce ai propri consimili bianchi, per quanto spregevoli. Non a caso quando compare il razziatore bianco Brown, Jim si fida di questi più che del parere dell’amico indigeno che gli consiglia di diffidare e combatterlo.
E qui apro una parentesi per notare un’ulteriore evocazione shakespeariana in questa parte del romanzo: quella data dal gioco di contrasto di bianco e di nero che lega tra loro come in uno specchio il bianco Brown (brown = bruno) dai neri propositi e il candido Jim, che pure nasconde però sotto il suo abito immacolato l’antica macchia del tradimento della Patna. Si tratta di un gioco di riflessi che rimanda in qualche misura a quello messo in scena nell’Otello, dove Jago, il bianco tentatore, nasconde in sé un cuore nero, mentre il Moro ha un cuore candido e però pronto a lasciarsi tentare e contaminare dall’altro.
E infine, sempre a proposito di Shakespeare, c’è la figura di Jim che sotto vari aspetti evoca Amleto.
Questo è visibile soprattutto al momento della sua morte: una morte cui è spinto dal fantasma del padre – di tutto quell’insieme di valori che il padre rappresenta e di fronte al quale Jim vorrebbe riscattarsi della sua debolezza. È questo fantasma interno che lo induce ad agire secondo un codice d’onore che non ammette incertezze e si richiama agli ideali di un mondo ormai tramontato.
La morte di Jim è amletica non nel senso generico e comune del termine, ma anche in dettagli precisi. Per esempio: così come Amleto non sospetta che Laerte, allevato nel suo stesso ambiente e secondo gli stessi principii, possa avere avvelenato la punta della spada e viene tradito da questa sua fiducia, anche Jim viene tradito dalla fiducia che ripone nel senso dell’onore di Brown, in quanto membro dello stesso suo mondo.
(E qui Conrad, tra parentesi va aggiunto, penetra a fondo e lascia intravvedere che il vincolo che lega i due bianchi è, sotto l’apparenza degli alti valori, quello ereditario di una colpa che riguarda tutta la civiltà bianca: “un sottile riferimento alla loro consanguineità…; un repugnante sottinteso di colpa comune, di una segreta conoscenza, che era come un vincolo tra le loro menti e i loro cuori.”)
Ma l’aspetto più amletico di Jim sta nel fatto che egli muore senza essere riuscito a esprimere se stesso né a riconquistare il suo onore di fronte al mondo.
Riporto qui di seguito per un confronto l’ultimo discorso di Amleto e l’ultimo incontro tra Marlow e Jim:
1. “Sono morto, Orazio.(…) Voi che assistete pallidi e tremanti a questo eve
nto, che siete solo comparse o spettatori in questa vicenda, se solo avessi tempo (…) – oh, io potrei dirvi – Ma non importa. orazio io sono morto. Tu vivi. Racconta di me e della mia causa in modo giusto a quelli che non sanno tutto.(…) Oh, buon Orazio, che nome ferito, se le cos
e restano ignorate come ora sono, resterà dopo di me! Se mai mi portasti nel tuo cuore, assentati per un po’ dalla felicità, e resta ancora a sospirare in pena in questo duro mondo, per raccontare la mia storia (…) le vicende, più o meno (…) Il resto è silenzio.” (Amleto Atto V, sc.2)
2. “Ricorderete che quando mi separai da lui per l’ultima volta, ed egli [Jim] mi aveva gridato dietro: ‘Dite loro…’ avevo atteso – con curiosità, lo confesso, e anche con speranza – ma solo per sentirlo gridare ancora: ‘No – niente.’
Ciò allora fu tutto – e non ci sarà niente altro; non ci sarà alcun messaggio, tranne quello che ciascuno di noi può per proprio conto interpretare dal linguaggio dei fatti, che sono tanto spesso più enigmatici del più complicato giro di parole. Egli fece, è vero, ancora un tentativo di esprimersi, ma anche questo fallì (…) Fu sopraffatto dall’inesplicabile.” (Marlow in Lord Jim)
L’ultima immagine di Jim, filtrata attraverso sguardi altrui, lo mostra cadere in un atteggiamento che pare l’equivalente gestuale dell’ultima famosa frase di Amleto, “il resto è silenzio” :
“Dicono che il bianco gettò a destra e a sinistra su tutti quei visi uno sguardo fiero e fermo. Poi con la mano davanti alle labbra, cadde in avanti, morto.”
Marlow dunque, il narratore coinvolto nella sua storia, assume infine per Jim la stessa funzione che ha Orazio per Amleto: come lui, dopo esserne stato a lungo il confidente, prende su di sé il compito di raccontarne la storia, di salvarne il “nome ferito”, portando a conoscenza del mondo ciò che di lui il mondo non può sapere: l’ignota Patusan interiore della sua gloria e del suo disastro.
Ma tutto ciò che Marlow sa di Jim – proprio come tutto ciò che sa Orazio di Amleto – non potrà mai bastare ad esprimere ciò che c’è nel fondo del suo cuore, ciò che Jim stesso “potrebbe dire” ma non sa né può esprimere “perché la vita è troppo corta per quella piena espressione che attraverso tutti i nostri balbettii è (…) la nostra unica e costante aspirazione. (…) Manca il tempo per dire la nostra ultima parola” .
“Egli se ne è andato inscrutabile nel suo cuore...” commenterà Marlow di fronte al suo piccolo uditorio.
Jim, nonostante il fascino che esercita sul lettore attraverso l’affetto di Marlow, che in lui vede se stesso da giovane e tutto il mondo di illusioni della giovinezza, da cui prende le distanze anche con rabbia e comunque con mixed feelings, ma a cui non può non pensare con nostalgia, non è un personaggiopositivo.
In un certo senso quella sua morte – la morte alla quale l’altro suo “padre”, e cioè Conrad, l’autore, lo destina, non senza aver protratto in continue dilazioni il romanzo ben oltre il progetto iniziale – segna anche la chiusura e la distanziazione di Conrad rispetto alle idealità romantico-eroiche della giovinezza, pur così pervase di glamour, e il suo definitivo giudizio su di esse.
“Egli scompare nell’ombra del sospetto, inscrutabile nel cuore (…) ed estremamente romantico. (…) Ma noi lo vediamo, oscuro conquistatore di fama, strapparsi dalle braccia di un amore esclusivo al cenno, al richiamo del suo esaltato egoismo. Si stacca da una donna viva per celebrare le sue spietate nozze con un vago ideale di condotta. Sarà convinto – del tutto, adesso, mi chiedo? (…) Chissà. Se ne è andato, inscrutabile nel cuore…”
Per Conrad la morte è implicita, per così dire, nella falsa coscienza: sia in quella della giovinezza che si crede immortale, sia in quella di tutta la civiltà che sostiene le idealità individualiste romantiche – quella civiltà occidentale che Conrad, ancora per bocca di Marlow, aveva già definito in Cuore di tenebra, la civiltà “dei sepolchi imbiancati”. Non a caso il Jim di Patusan veste sempre di bianco. Ma soprattutto il destino di morte di Jim, sembra dire Conrad, scaturisce dall’intimo gheriglio della sua civiltà e dello stesso cuore di Jim – simbolizzati da Brown il razziatore e, insieme, da quella famosa pistola datagli dal trafficante e che lui regalerà al capo indigeno, il quale alla fine la userà per finirlo – venendo incontro, in questo, alla necessità interna di Jim stesso.
Anche qui si nota una corrispondenza con l’Amleto. Shakespeare costruisce quel suo dramma sotto l’etichetta di “tragedia della vendetta” (un genere allora molto in voga), ma dilazionando quasi oltre ogni limite l’ attuazione di tale vendetta, ne fa infine un dramma contro la vendetta stessa e il senso dell’onore che la sostiene: ne mostra il non senso. Anzi di più: Shakespeare attraverso Amleto mostra, quasi direi denuda, il senso solo rovinoso del codice d’onore che la prescrive: tutti muoiono alla fine, buoni e cattivi senza distinzione, e l’intero regno di Danimarca decade finendo in soggezione di un paese straniero.
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Per le citazioni ho usato la mia traduzione.
La prima immagine: Monaco in riva al mare di C. Friedrich (Berlino, Nationagalerie)
L’illustrazione della morte di Amleto è nelle Tales from Shakespeare di Charles and Mary Lamb, (Philadelphia: Henry Altemus Company, 1901). Tratta da Clipart Etc
linodigianni
/ agosto 29, 2010Questa serie di scritti tuoi devo rileggerli piu volte.Magari me li trsformo in pdf e me li stampo, penso che ne ricaverò un volumetto sorprendente!Grazie anche per la segnalazione del sito Clipart Etc stupenda fonte di clipart free. ( Ti avanzasse del tempo..se vuoi dare un 'occhiata in questo mio sito al video sulle scimmie arboricole)
AnnaSetari
/ agosto 29, 2010Grazie Lino, ma il link del tuo sito non dev'essere esatto: non porta a nessuna pagina.
linodigianni
/ agosto 29, 2010scusa, comunque l'indirizzo è questo: http://www.linodigianni.it