
Il tuo volto domani, di Javier Marías è un romanzo in tre parti. Anzi, per essere più esatti, si tratta di tre romanzi usciti separatamente tra il 2002 e il 2009, ma strettamente concatenati tra loro.
Il titolo molto suggestivo è una citazione shakespeariana, come già era accaduto per precedenti opere di questo autore: vedi, per esempio, Domani nella battaglia pensa a me e Quando ero mortale (citazioni dal Riccardo III), Un cuore così bianco (citazione dal Macbeth), La nera schiena del tempo (citazione dalla Tempesta).
Questa volta la fonte è Enrico IV, duplice dramma storico shakespeariano che tratta della giovinezza del principe Enrico: cioè del suo volto di dissipazione destinato a mutarsi in quello della matura responsabilità di re Enrico V – o, da altro punto di vista, del suo volto di amico e compagno di bagordi di Falstaff che infine si muta in quello del sovrano che lo rinnega e bandisce insieme col proprio passato.
Il titolo si adatta dunque perfettamente a questo romanzo che ha per oggetto la possibilità (o l’impossibilità) di conoscere a fondo le persone e la realtà che ci circondano – e ancor più noi stessi – e di prevedere di conseguenza sotto quale nuovo volto la realtà, le persone o noi stessi potremmo apparire nel futuro e a uno sguardo retrospettivo.
Questo compito di interpretazione e previsione è precisamente quello affidato al protagonista, Jacobo, Jacques, Jack o Jago Deza, che già in questa oscillazione del nome allude alla molteplicità che può dispiegarsi all’interno di un unico volto. Deza è uno spagnolo che, come l’autore, ha alle spalle un lontano periodo universitario a Oxford e che – sempre come l’autore e come molti dei suoi narratori – è anche un traduttore, un interprete. Dopo una sofferta separazione dalla moglie, Luisa (un nome di moglie che percorre molti dei romanzi di Marías), Deza è ritornato a soggiornare in Inghilterra per distanziarsi dallo scenario del suo ancora aperto conflitto familiare. Conoscendo perfettamente la lingua inglese oltre la propria e qualche altra, egli viene assunto, per suggerimento di un suo amico dei tempi di Oxford, un anziano e autorevole professore ora in pensione, verso il quale egli nutre sentimenti di profonda, quasi filiale devozione (fratello di un personaggio già apparso in Tutte le anime), in un’anonima struttura di spionaggio, col compito di interprete. Non tanto di interprete linguistico però, quanto di interprete di vite. Egli deve osservare le persone cui il suo capo, l’indecifrabile Tupra, dotato a sua volta di un’acutissima capacità di interpretazione, è interessato, e cercare di prevedere dal loro comportamento attuale come potrebbero reagire e comportarsi in eventuali diverse situazioni.
Questa attività, i cui scopi gli restano ignoti – e che per molti aspetti è “simile a quella di chi scriva romanzi” – si svolge parallelamente e s’intreccia inevitabilmente a quella che Deza va quasi involontariamente conducendo per proprio conto, cercando di decifrare e comprendere la propria stessa vicenda personale intrecciata a quella delle persone cui è legata la sua vita – Luisa, che ancora ama pur da lontano e separato, suo padre (un intellettuale che ha sofferto la guerra civile e la dittatura franchista e che ricalca nella sua biografia quella del reale padre dell’autore) e lo stesso amatissimo professor Wheeler, che pure ha sfiorato la guerra di Spagna, così come ha partecipato al secondo conflitto mondiale attraverso attività di spionaggio.
Nel corso di questa esperienza Deza si troverà a contatto sempre più ravvicinato con la violenza e la propensione al male che vivono all’interno degli individui, nel passato della Storia così come sotto la superficie pacifica e civile della contemporaneità in Europa e, infine, con la capacità di violenza che scopre all’ interno della sua stessa persona.
Non entro nei dettagli, perché penso che toglierei, se lo facessi, parte del piacere della lettura.

Dico solo che in questo viaggio Deza rivivrà, attraverso il racconto del padre tutto l’orrore della guerra di Spagna, della barbarie che vi si scatenò da entrambe le parti, dei tradimenti, delle viltà e delle brutture che furono allora perpretate, e attraverso i racconti del suo secondo padre, Wheeler, il male meno noto e appariscente macchinato negli uffici dei servizi segreti durante la II guerra mondiale. Si tratta della barbarie che insiste sotto la liscia superficie della civiltà e che sempre, dice questo romanzo, può inaspettatamente riemergere – così come, in una indimenticabile scena, una spada delle età antiche può inaspettatamente venire estratta dall’elegante cappotto del compìto Tupra per calarsi con inaudita quanto ancestrale violenza sul collo di un malcapitato nella toilette di un elegante nightclub dell’attuale Londra.
E si tratta anche del male involontario, provocato da parole e discorsi confidati con innocenza che si ritorcono con imprevedibili esiti su altri innocenti e contro chi si era fiduciosamente confidato.
Non sono tuttavia solo le vicende narrate – per quanto estremamente vive, cariche di interesse, alcune tali da innestarsi come memorie proprie nella mente di chi legge – ciò che rendono importante questo romanzo.
Gran parte del suo fascino è dato anche dal suo procedere attraverso continue e amplissime digressioni – storiche, filosofiche, psicologiche, linguistiche – e una fitta rete di ripetizioni, entro una scrittura tessuta spesso di periodi tanto lunghi da occupare a volte quasi un’intera pagina, trascinando il lettore in un procedere apparentemente lento, ma così strettamente concatenato da far divorare uno dietro l’altro i capitoli senza mai sospendere l’attenzione.
Marías si richiama apertamente a Sterne (autore da lui tradotto in spagnolo) in questo suo “procedere attraverso digressioni”. E non a torto. Il tuo volto domani, pure se pieno di eventi spesso tragici o addirittura macabri e pur denso com’è di riflessioni (sulla vita come racconto, sulla letteratura, sul cinema, su vari personaggi pubblici, sulle relazioni personali di amore e di amicizia o rivalità, sulla vecchiaia, sulla morte), è contemporaneamente un racconto ricco di umorismo e anche di bizzarria – aspetti, questi, che in molta misura appartengono al carattere di Deza, il suo protagonista, osservatore e narratore, personaggio pieno di idiosincrasie e insofferenze e dotato di un risentito, quasi bernhardiano, sguardo critico sui nostri tempi e in particolare sul proprio paese, la Spagna (che, tra parentesi, somiglia moltissimo nei suoi mali al nostro).
La sua narrazione non si presenta come un racconto di eventi già ormai organizzati nella memoria secondo una forma compiuta, ma si offre al lettore nel suo farsi – apertamente incompiuto nei primi due volumi, e in qualche misura ancora aperto anche nel terzo, che pure giunge a conclusione per quanto riguarda i maggiori eventi della trama. Deza si rivolge al lettore come a un confidente cui apra la propria mente mentre è al lavoro, impegnata in una ricostruzione e riesame dei fatti che si svolge contemporaneamente al succedersi in scena di nuovi accadimenti che li illuminano retrospettivamente e richiedono ulteriori interpretazioni. In quest’opera di elaborazione in progress della propria esperienza in racconto, entrano materiali che provengono da campi i più vari – ricordi personali, discorsi ascoltati o letture assimilate, impressioni ricevute da opere d’arte o da fotografie, diversi scenari cittadini, dettagli visivi, ritornelli di canzoni che si ripresentano insistenti. Di qui l’inevitabile soffermarsi di Deza – come in continui “a parte” teatrali – su associazioni di varia natura, la riflessione sulle relazioni tra eventi apparentemente lontani, lo scavo minuzioso all’interno dell’ambiguità delle parole, reso più urgente anche dalla necessità di tradurre da una lingua all’altra, e che però è indice della difficoltà o 
dell’impossibilità di decifrare il mistero degli altri o di afferrare fino in fondo e senza residui l’ambiguità della realtà e di se stessi, nonché quella di tradurla in racconto per consegnarla alla memoria.
Ammetto (e dunque anche avverto) che all’inizio, soprattutto nel primo volume, le caratteristiche di questa narrazione possono irritare o scoraggiare specialmente il lettore che non abbia già familiarità con questo autore.
È una lettura che richiede insomma un poco di pazienza. Anch’io ho dovuto usarla. Ma, una volta superato il primo sconcerto, una volta entrati, per così dire, nel ritmo o nel respiro di questo complesso periodare – che poi è quello della riflessione e della ricerca – il lettore viene ampiamente gratificato e catturato fino all’entusiasmo.
Questo avviene soprattutto nel secondo sorprendente volume e continua nel terzo, il più lungo dei tre. Man mano che emerge e si dipana la trama nella sua drammaticità e anche nella sua bizzarria, tutte le digressioni filosofiche e linguistiche così come il ripresentarsi di motivi insistenti – una misteriosa macchia di sangue che il protagonista trova sulla scala di casa del suo amico, tanto per fare un per esempio – si rivelano assolutamente necessari, mostrando le loro segrete e ramificate implicazioni.
Non solo: si scopre in questo romanzo un aspetto musicale. Mi riferisco alle ripetizioni: intere frasi e anche periodi vengono ripetuti identici lungo tutta la narrazione. All’inizio esse provocano un sospetto di pura tautologia. Poi però, man mano che ricompaiono in nuovi contesti, tali ripetizioni finiscono con l’assumere inaspettate risonanze, dispiegando il proprio senso e arricchendosi di nuovi, con un effetto simile a quello provocato dalle frasi musicali che ritornano nel corso di una sinfonia, inducendo ogni volta un diverso e più intenso piacere, che si somma a quello del puro riconoscimento stesso.
In margine aggiungo che chi ha già letto precedenti opere di Marías troverà qui personaggi già presenti in altri romanzi (in particolare Tutte le anime e Un cuore così bianco). Anche questo contribuisce a infittire di ulteriori implicazioni il motivo annunciato dal titolo: il riapparire di queste figure costituisce per il lettore un nuovo incontro che, oltre i confini che separano una narrazione (una vita) dall’altra, ridefinisce il loro volto, ne rivela il futuro, ne illumina retrospettivamente il passato di luci e di ombre – e rende questa meditazione in forma di romanzo aperta ad altri possibili sviluppi.
_________________________________________
Immagini
- Javier Marías
- Una spada katzbalger, simile a quella che appare nel romanzo.
- E Hopper, Finestra di notte (1928)