Notturno con Marías (appendice ad Amori di Carta)

"Parlano i libri a metà della notte come parla il fiume, con placidità o svogliatezza, o la svogliatezza la si aggiunge con la propria fatica e il proprio sonnambulismo e i propri sogni, per quanto si sia o si pensi di essere molto svegli. Si collabora poco, o si crede questo, si ha la sensazione che ci si stia informando quasi senza sforzo e senza farci molto caso, le parole scivolano lievemente o flebilmente, senza l'ostacolo della lettura vigile, dell'impeto, si assorbono passivamente o come un regalo, e sembrano qualcosa che non si calcola né costa né trae profitti, anche il loro suono è tranquillo o paziente o languido, a loro volta costituiscono un filo di continuità tra vivi e morti, quando l'autore letto è già defunto oppure no, ma interpreta o riporta fatti passati che non palpitano e malgrado ciò possono modificarsi o negarsi, intendersi come viltà o prodezze, e questa è la sua maniera di continuare a vivere o di continuare a commuovere, senza darci mai riposo. E è a metà della notte che più si assomiglia a quegli avvenimenti e a quei tempi, che ormai non possono opporre resistenza a ciò che venga detto di loro (…), proprio come gli indifesi morti, anche più indifesi di quando erano vivi  e nel corso di molto maggior tempo, la posterità è infinitamente più lunga che gli scarsi e malvagi giorni di qualunque uomo."

Questo è Marías, che ieri rileggevo appunto a metà della notte.
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Il tuo volto domani, I vol. Febbre e lancia, traduzione di Glauco Felici, Einaudi 2003.

IL TUO VOLTO DOMANI di Javier Marías (amori di carta)


Il tuo volto domani, di Javier Marías  è un romanzo in tre parti. Anzi, per essere più esatti, si tratta di tre romanzi usciti separatamente tra il 2002 e il 2009, ma strettamente concatenati tra loro.

Il titolo molto suggestivo è una citazione shakespeariana, come già era accaduto per precedenti opere di questo autore: vedi, per esempio, Domani nella battaglia pensa a me e Quando ero mortale (citazioni dal Riccardo III),  Un cuore così bianco (citazione dal Macbeth), La nera schiena del tempo (citazione dalla Tempesta).
Questa volta la fonte è Enrico IV, duplice dramma storico shakespeariano che tratta della giovinezza del principe Enrico: cioè del suo volto di dissipazione destinato a mutarsi in quello della matura responsabilità di re Enrico V – o, da altro punto di vista, del suo volto di amico e compagno di bagordi di Falstaff che infine si muta in quello del sovrano che lo rinnega e bandisce insieme col proprio passato.
Il titolo si adatta dunque perfettamente a questo romanzo che ha per oggetto la possibilità (o l’impossibilità) di conoscere a fondo le persone e la realtà che ci circondano – e ancor più noi stessi – e di prevedere di conseguenza sotto quale nuovo volto la realtà, le persone o noi stessi potremmo apparire nel futuro e a uno sguardo retrospettivo.

Questo compito di interpretazione e previsione è precisamente quello affidato al protagonista, Jacobo, Jacques, Jack o Jago Deza, che già in questa oscillazione del nome allude alla molteplicità che può dispiegarsi all’interno di un unico volto. Deza è uno spagnolo che, come l’autore, ha alle spalle un lontano periodo universitario a Oxford e che –  sempre come l’autore e come molti dei suoi narratori – è anche un traduttore, un interprete. Dopo una sofferta separazione dalla moglie, Luisa (un nome di moglie che percorre molti dei romanzi di Marías), Deza è ritornato a soggiornare in Inghilterra per distanziarsi dallo scenario del suo ancora aperto conflitto familiare. Conoscendo perfettamente la lingua inglese oltre la propria e qualche altra, egli viene assunto, per suggerimento di un suo amico dei tempi di Oxford, un anziano e autorevole professore ora in pensione, verso il quale egli nutre sentimenti di profonda, quasi filiale devozione (fratello di un personaggio già apparso in Tutte le anime), in un’anonima struttura di spionaggio, col compito di interprete. Non tanto di interprete linguistico però, quanto di interprete di vite. Egli deve osservare le persone cui il suo capo, l’indecifrabile Tupra, dotato a sua volta di un’acutissima capacità di interpretazione, è interessato, e cercare di prevedere dal loro comportamento attuale come potrebbero reagire e comportarsi in eventuali diverse situazioni.
Questa attività, i cui scopi gli restano ignoti – e che per molti aspetti è “simile a quella di chi scriva romanzi” –  si svolge parallelamente e s’intreccia inevitabilmente a quella che Deza va quasi involontariamente conducendo per proprio conto, cercando di decifrare e comprendere la propria stessa vicenda personale intrecciata a quella delle persone cui è legata la sua vita – Luisa, che ancora ama pur da lontano e separato, suo padre (un intellettuale che ha sofferto la guerra civile e la dittatura franchista e che ricalca nella sua biografia quella del reale padre dell’autore)  e lo stesso amatissimo professor Wheeler, che pure ha sfiorato la guerra di Spagna, così come ha partecipato al secondo conflitto mondiale attraverso attività di spionaggio.
Nel corso di questa esperienza Deza si troverà a contatto sempre più ravvicinato con la violenza e la propensione al male che vivono all’interno degli individui, nel passato della Storia così come sotto la superficie pacifica e civile della contemporaneità in Europa e, infine, con la capacità di violenza che scopre all’ interno della sua stessa persona.

Non entro nei dettagli, perché penso che toglierei, se lo facessi, parte del piacere della lettura.

Dico solo che in questo viaggio Deza  rivivrà, attraverso il racconto del padre tutto l’orrore della guerra di Spagna, della barbarie che vi si scatenò da entrambe le parti, dei tradimenti, delle viltà e delle brutture che furono allora perpretate, e attraverso i racconti del suo secondo padre, Wheeler, il male meno noto e appariscente macchinato negli uffici dei servizi segreti durante la II guerra mondiale. Si tratta della barbarie che insiste sotto la liscia superficie della civiltà e che sempre, dice questo romanzo, può inaspettatamente riemergere – così come, in una indimenticabile scena, una spada delle età antiche può inaspettatamente venire estratta dall’elegante cappotto del compìto Tupra per calarsi con inaudita quanto ancestrale violenza sul collo di un malcapitato nella toilette di un elegante nightclub dell’attuale Londra.
E si tratta anche del male involontario, provocato da parole e discorsi confidati con innocenza che si ritorcono con imprevedibili esiti su altri innocenti e contro chi si era fiduciosamente confidato.

Non sono tuttavia solo le vicende narrate – per quanto estremamente vive, cariche di interesse, alcune tali da innestarsi come memorie proprie nella mente di chi legge – ciò che rendono importante questo romanzo.
Gran parte del suo fascino è dato anche dal suo procedere attraverso continue e amplissime digressioni – storiche, filosofiche, psicologiche, linguistiche – e una fitta rete di ripetizioni, entro una scrittura tessuta spesso di periodi tanto lunghi da occupare a volte quasi un’intera pagina, trascinando il lettore in un procedere apparentemente lento, ma così strettamente concatenato da far divorare uno dietro l’altro i capitoli senza mai sospendere l’attenzione.

Marías si richiama apertamente a Sterne (autore da lui tradotto in spagnolo) in questo suo “procedere attraverso digressioni”. E non a torto.  Il tuo volto domani, pure se pieno di eventi spesso tragici o addirittura macabri e pur denso com’è di riflessioni (sulla vita come racconto, sulla letteratura, sul cinema, su vari personaggi pubblici, sulle relazioni personali di amore e di amicizia o rivalità, sulla vecchiaia, sulla morte), è contemporaneamente un racconto ricco di umorismo e anche di bizzarria – aspetti, questi, che in molta misura appartengono al carattere di Deza, il suo protagonista, osservatore e narratore, personaggio pieno di idiosincrasie e insofferenze e dotato di un risentito, quasi bernhardiano, sguardo critico sui nostri tempi e in particolare sul proprio paese, la Spagna (che, tra parentesi, somiglia moltissimo nei suoi mali al nostro).
La sua narrazione non si presenta come un racconto di eventi già ormai organizzati nella memoria secondo una forma compiuta, ma si offre al lettore nel suo farsi – apertamente incompiuto nei primi due volumi, e in qualche misura ancora aperto anche nel terzo, che pure giunge a conclusione per quanto riguarda i maggiori eventi della trama.   Deza si rivolge al lettore come a un confidente cui apra la propria mente mentre è al lavoro, impegnata in una ricostruzione e riesame dei fatti che si svolge contemporaneamente al succedersi in scena di nuovi accadimenti che li illuminano retrospettivamente e richiedono ulteriori interpretazioni. In quest’opera di elaborazione in progress della propria esperienza in racconto, entrano materiali che provengono da campi i più vari –  ricordi personali, discorsi ascoltati o  letture assimilate, impressioni ricevute da opere d’arte o da fotografie, diversi scenari cittadini, dettagli visivi, ritornelli di canzoni che si ripresentano insistenti. Di qui l’inevitabile soffermarsi di Deza – come in continui “a parte” teatrali – su associazioni di varia natura, la riflessione sulle relazioni tra eventi apparentemente lontani, lo scavo minuzioso all’interno dell’ambiguità delle parole, reso più urgente anche dalla necessità di tradurre da una lingua all’altra, e che però è indice della difficoltà o
dell’impossibilità di decifrare il mistero degli altri o di afferrare fino in fondo e senza residui l’ambiguità della realtà e di se stessi, nonché quella di tradurla in racconto per consegnarla alla memoria.

Ammetto (e dunque anche avverto) che all’inizio, soprattutto nel primo volume, le caratteristiche di questa narrazione possono irritare o scoraggiare specialmente il lettore che non abbia già familiarità con questo autore.
È una lettura che richiede insomma un poco di pazienza. Anch’io ho dovuto usarla. Ma, una volta superato il primo sconcerto, una volta entrati, per così dire, nel ritmo o nel respiro di questo complesso periodare  – che poi è quello della riflessione e della ricerca – il lettore viene ampiamente gratificato e catturato fino all’entusiasmo.
Questo avviene soprattutto nel secondo sorprendente volume e continua nel terzo, il più lungo dei tre. Man mano che emerge e si dipana la trama nella sua drammaticità e anche nella sua bizzarria, tutte le digressioni filosofiche e linguistiche così come il ripresentarsi di motivi insistenti – una misteriosa macchia di sangue che il protagonista trova sulla scala di casa del suo amico, tanto per fare un per esempio  –  si rivelano assolutamente necessari, mostrando le loro segrete e ramificate implicazioni.
Non solo: si scopre in questo romanzo un aspetto musicale. Mi riferisco alle ripetizioni: intere frasi e anche periodi vengono ripetuti identici lungo tutta la narrazione. All’inizio esse provocano un sospetto di pura tautologia. Poi però, man mano che ricompaiono in nuovi contesti, tali ripetizioni finiscono con l’assumere inaspettate risonanze, dispiegando il proprio senso e arricchendosi di nuovi, con un effetto simile a quello provocato dalle frasi musicali che ritornano nel corso di una sinfonia, inducendo ogni volta un diverso e più intenso piacere, che si somma a quello del puro riconoscimento stesso.

In margine aggiungo che chi ha già letto precedenti opere di Marías troverà qui personaggi già presenti in altri romanzi (in particolare Tutte le anime e Un cuore così bianco). Anche questo contribuisce a infittire di ulteriori implicazioni il motivo annunciato dal titolo: il riapparire di queste figure costituisce per il lettore un nuovo incontro che, oltre i confini che separano una narrazione (una vita) dall’altra, ridefinisce il loro volto, ne rivela il futuro, ne illumina retrospettivamente il passato di luci e di ombre – e rende questa meditazione in forma di romanzo aperta ad altri possibili sviluppi.

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Immagini

  • Javier Marías
  • Una spada katzbalger, simile a quella che appare nel romanzo.
  • E Hopper, Finestra di notte (1928)

“E che altro”

"… spesso neppure Shakespeare lo si comprende o non perfettamente, e tuttavia apre dieci sentieri o imbocchi di strade entro cui addentrarsi per arrivare molto lontano ogni volta che usa un'oscura metafora o un'ambiguità abbagliante (li apre se  uno continua a osservare e a pensare più in là del necessario, come ci raccomandava mio padre, e si ostina con se stesso e si dice "E che altro", lì dove si direbbe che non può esserci più niente)"

Questo è Javier Marías ne Il tuo volto domani, che ancora sto leggendo – anche perché la sua narrazione fa durare frazioni di secondi di azione (una spada che sta per calare violentemente su un collo) per due capitoli e nel frattempo, oltre a citare e rimuginare due tre versi di Shakespeare che tornano a riemergere  lungo l'intero romanzo, fa a tempo, in mezzo a varie altre riflessioni e parentesi e considerazioni linguistiche ed etimologie e ricordi, a introdurre persino il nostro amabile PdC (a proposito dei trattamenti di bellezza al botulino): "Guarda quella macchietta di Berlusconi – dice un suo personaggio – a quest'ora dev'essere ormai tutto quanto di lattice, lo hai visto?, sembra un ninot da baraccone. Forse lui sì dovrebbe cambiare sesso, magari in questo modo migliora un po', o si riumanizza, una nonna."

(le citazioni sono tratte da Javier Marías l tuo volto domani, secondo vol., trad. di Glauco Felici, Einaudi 2007)

un escritorazo

Nella prima pagina di Il tuo volto domani di Javier Marías, autore molto amato ma che non leggevo da qualche tempo, riconosco subito il suo tratto e qualcosa che ancora una volta mi cattura. Vorrei riportarla tutta quella magnifica prima pagina, ma non si può, e mi limito a questo:

"Raccontare è quasi sempre un regalo, compreso quando porta e inietta veleno il racconto, è anche un vincolo e un concedere fiducia, e rara è la fiducia che prima o poi non si tradisca, raro il vincolo che non si aggrovigli o non si annodi, e perciò finisca per stringere e si debba tirare di coltello o di lama per reciderlo."

Come si fa a non proseguire la lettura? facendolo non si trovano che nuovi stimoli a proseguire – cose come questa, in pagine di poco successive, che sono premessa e promessa a quanto seguirà:

"È scandaloso come possiamo supplire alle figure perdute della nostra vita, come ci sforziamo di coprire quelle vacanti, come mai ci rassegnamo a che si riduca l'elenco senza cui ci sopportiamo male e a mala pena ci sosteniamo, e come allo stesso tempo ci prestiamo tutti a occupare vicariamente i posti vuoti che ci vengono via via assegnati, perché comprendiamo e partecipiamo a quel movimento sostitutorio universale e continuo, che essendo di tutti è nostro, e così accettiamo di essere contraffazioni, e di vivere sempre più circondati da esse."

È davvero un grande scrittore Marías: un escritorazo, come diceva Bolaño. Chissà, forse, quando emergerò dalle sue pagine (sono tre i volumi che mi aspettano), mi proverò a parlarne.

(Javier Marías: Il tuo volto domani, 3 volumi, Einaudi 2003, trad. di Glauco Felici)