In margine a Otello (Iago, il comico)

È curioso apprendere che Iago si dice* che fosse interpretato la prima volta da Robert Armin, l’attore comico della compagnia dei Chamberlain’s Men, di cui sia lui che Shakespeare erano soci.

Robert Armin

Robert Armin

Armin aveva sostituito nel 1600  William Kemp, un altro popolarissimo comico che aveva lasciato la compagnia, cambiando con la sua diversa personalità il tipo di clown che avevano fino allora popolato il teatro di Shakespeare.
Non era uno qualsiasi questo Armin. Originariamente un orefice, minuto di corporatura, agile, intelligente, ricco di bizzarra fantasia e anche di capacità musicali, era già – al tempo in cui entrò nella compagnia – un autore  noto e popolare di varie ballate, di qualche commedia da lui stesso rappresentata e anche di scritti, il più importante dei quali è un trattatello intitolato Fool upon Fool. In esso, dichiarandosi lui stesso uno di loro, suddivideva i fool (i Buffoni, i Matti giullari) in varie categorie, fornendo notizie, testimonianze e riflessioni sulla loro comicità e sulle loro sgangherate, precarie e spesso disgraziatissime vite.
Gli interessava soprattutto il filo sottile e non sempre distinguibile che separava e a volte univa in un’unica figura il “matto professionale” e il “matto naturale”, sottolineando la funzione servile e a un tempo sovversiva di queste presenze nelle corti e nelle case dei potenti – presenze adatte a smascherare la follia dei grandi e, in generale, l’inquietante indefinitezza del confine tra sanità e follia.

Feste, di John Link

Feste, di John Link

Per Armin – e ispirandosi alle sue varie doti sceniche, al suo particolare spirito “filosofico” ironicamente amaro e cinico, oltre che ai suoi scritti – Shakespeare ha creato i grandi Fool o Buffoni del proprio teatro, tra cui i più memorabili sono Touchstone (Come vi piace), Feste (La dodicesima notte), il Matto di Re Lear, Autolico (Il racconto d’inverno).

Autolico (l'attore R. Schildkraut ritratto da Emil Orlik, 1906)

Autolico (l’attore R. Schildkraut ritratto da Emil Orlik, 1906)

Tutti personaggi dallo spirito acuto, dalla vena satirica velata di malinconia, capace di individuare le debolezze e le contraddizioni comuni e dei potenti, di smascherare l’inconsistenza e la follia dei comportamenti, la scarsa conoscenza di sé degli esseri umani.

Ma che cosa ha in comune Iago con questi Buffoni o Matti? Perché la sua parte venne affidata ad Armin?

Una prima risposta la dà Otello, che dice (atto 3, sc.3) che Iago “conosce, con spirito di studioso**, tutti gli aspetti dei comportamenti umani”.

Come i Buffoni (Fool), dunque, Iago sa vedere con cinico disincanto e far emergere le debolezze degli altri. Come i Buffoni, sa anche intrattenere  per ingraziarseli i signori da cui dipende con strofette e battute salaci, piene di allusioni oscene (vedi le sue improvvisazioni per distrarre Desdemona mentre attende a Cipro l’arrivo del Moro – Atto 2, sc.1) o sa essere il gioviale compagno di bevute con i suoi camerati – come già Feste nella cucina della padrona nella Dodicesima notte, ma, a differenza di Feste, senza alcuno spirito di solidarietà. 
Ha le doti e l’arte scenica di un comico, Iago.
Condivide soprattutto con i Buffoni- e questo è il punto più significativo – la posizione servile e indubbiamente il risentimento che da questa proviene e che si può tradurre in potenzialità eversiva o  in sadica crudeltà – sfiorata anche da Feste nel corso della beffa contro Malvolio.

Eppure Iago è profondamente diverso dai veri e propri Buffoni, e più che mai dal dolente, malinconico e filosofico Feste.
La trama beffarda cui partecipa Feste per dare una lezione al presuntuoso e sprezzante Malvolio, puritano ipocrita e nemico dell’arte oltre che della gioiosità della vita – o anche le crudeli strofe del Matto che mettono Lear di fronte a se stesso ricordandogli il proprio catastrofico errore – hanno l’aspetto di un’amarissima medicina somministrata per un sorta di finalità terapeutica, senza alcun vantaggio personale per chi la somministra – tranne forse una certa soddisfazione teatrale, artistica.
Iago anche lui si prende una soddisfazione artistica nel dirigere come burattini le sue vittime, ma la sua finalità non è terapeutica: non somministra loro una amara medicina, ma versa del “veleno mortale nelle loro orecchie”. Non intende svelare le contraddizioni o le miserie che si nascondano al fondo di comportamenti apparentemente nobili, alti e idealistici, ma vuole distruggere ogni possibile idealità o ricerca di bene.
Iago usa la sua conoscenza delle debolezze umane per accendere propositi criminosi nelle persone che manipola, per imbestiarle, abbassarle al proprio livello, esercitare sulle loro vite il potere che gli dà la propria aridità affettiva, rovinarle e trarre un vantaggio personale. Il vantaggio del potere appunto.
Vuole come un ragno “far cadere tutti loro nella rete”.
Tutti loro. “Loro” sono il prossimo in generale, e in particolare i migliori di lui, i privilegiati da un punto di vista sociale ma anche da quello spirituale (cose anche queste indistricabili, perché cultura, educazione, assenza di bisogno rendono più accessibili anche le virtù e la magnanimità, che quindi agli occhi di Iago sono anch’esse forme di quel privilegio da cui si sente escluso). “Tutti”, infatti, sono oggetto del risentimento: gli imbecilli, i cialtroni, i carrieristi, gli eroi osannati e anche i buoni e generosi, gli innocenti come Desdemona.

Iago interpretato da Totò in "Che cosa sono le nuvole?" di P.P.Pasolini

Iago interpretato da Totò in “Che cosa sono le nuvole?” di P.P.Pasolini. Attraverso un suo personalissimo percorso, anche Pasolini affidò il ruolo di Iago a un grande comico, surreale e umano.

Questo del resto è l’aspetto che è stato definito diabolico di Iago, e che si rifà infatti alle rappresentazioni morali (i Morality Plays) che tanto successo avevano avuto fino agli anni immediatamente precedenti alla fioritura del teatro elisabettiano. Nei Morality Plays non a caso l’emissario del diavolo, il Vizio, che cerca di irretire le anime era sempre un personaggio comico – il clown dall’abito tutto toppe prototipo di Arlecchino.

Ma Iago non è  davvero un comico. Non fa ridere. Non è una maschera né un emissario del diavolo destinato alla derisione e alla sconfitta: è semplicemente un aspetto infelice dell’umanità.
Forse Armin, l’istrione interessato come Shakespeare stesso agli sconfinamenti tra ragione e follia e allo spirito di risentimento, sadico e però anche autolesionistico, dei bistrattati fool, davvero può essere stato il migliore interprete di Iago, e in parte deve avergli donato qualcosa del suo amaro spirito – forse persino della sua infelicità.

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* Vedi Gary Schmidgall, Shakespeare and the Poet’s Life. University Press of Kentucky, 2010.
** Il corsivo è mio: lo spirito di studioso sembra quasi un diretto riferimento a Robert Armin.

in margine a Otello (la gelosia di Iago)

Iago odia il Moro perché questi ha nominato suo luogotenente un altro al posto suo.

…………E chi è costui?
Diamine, un gran calcolatore,
un certo Michele Cassio, un fiorentino,
un tipo destinato tutt’al più a una bella moglie
che mai ha schierato in campo uno squadrone
né sa d’una battaglia
più di quanto ne sappia un tessitore
– uno tutto teoria fatta sui libri..

Si sente misconosciuto nei suoi meriti e nella lunga fedeltà, Iago.
Il suo rancore è un sentimento che tutti siamo in grado di comprendere: è simile a quello che provocano un misconoscimento e un tradimento.
Iago fino a quel momento si era sentito il più vicino al suo ammirato generale in quelle operazioni di guerra che costituivano il loro terreno identitario comune. Su quel terreno lo univa a Otello anche il fatto d’essere entrambi estranei alle raffinatezze cittadine di cui invece Cassio, a suo dire, è esperto.
Tutti e due, lui e Otello, sono degli outsider: l’uno perché di origini straniere e quasi selvagge, l’altro perché di bassa estrazione sociale. Entrambi dunque sono simili nell’aver fatto della loro capacità guerresca il centro della propria identità e la via per essere accettati nel mondo.
Ma Otello è diventato il grande generale onorato dai potenti della Repubblica di Venezia, mentre Iago è rimasto in posizione servile; Otello inoltre viene amato da una gran signora di Venezia e lui invece ha per moglie una donna comune che può farle solo da serva.
Il rancore di Iago non resta però solo rancore: diventa odio, che è un sentimento più forte e profondo.

Shakespeare come sempre ci induce a non fermarci alla superficie. Quello che appare nella tragedia è che l’odio di Iago precede le ragioni che lo fanno emergere. Forse perché ha le sue radici nella grande ammirazione e quasi amore che lui ha nutrito per Otello. Nel fondo oscuro di quella ammirazione cova, come spesso accade, l’invidia. E l’invidia è parente della gelosia.

Non a caso, come rendendosi conto lui stesso che la forza del suo odio pesca in motivi più fondi e oscuri della sola amarezza per essersi visto anteporre un altro nel posto che avrebbe dovuto spettargli, Iago va in cerca di ulteriori motivi che possano giustificare il suo desiderio di vendetta e farne quasi un atto doveroso.
Insomma, non sapendo o volendo riconoscere di essere invidioso e geloso della fortuna e felicità del Moro, si costruisce un motivo che possa fondare in maniera più classica e plausibile la gelosia stessa.

………….Io odio il Moro
e si pensa in giro che tra le mie lenzuola
abbia assunto il mio ufficio. Io non so se sia vero,
ma per il semplice sospetto d’una cosa del genere
farò ad ogni buon conto come se fosse vero.
Lui mi stima – tanto più posso lavorarmelo.
Cassio è una persona perbene. Vediamo, ora –
prendere il suo posto, e metter piume al mio intento
in una doppia mascalzonata.

In questo stesso soliloquio, per immediata associazione di idee col tema delle corna (emerso come effetto, e non come causa, del sentimento di gelosia che lui prova) Iago, alla ricerca del modo più adatto in cui vendicarsi, ha improvvisamente l’idea di far credere al Moro d’essere tradito da Desdemona.

………..Come? Come? Vediamo –
potrei tra un po’ insinuare nell’orecchio di Otello
che Cassio è troppo in confidenza con sua moglie.
Costui ha un aspetto e un gentilezza di modi
da far nascere il sospetto: è fatto apposta
per rendere le donne infedeli. Il Moro
ha un carattere franco e aperto: pensa
che siano onesti tutti quelli che lo sembrano,
e si farà menare per il naso
docile come un asino.

Insomma Iago vuole dannare il Moro alla sua stessa pena: la gelosia.
“Moglie per moglie” dirà in un altro momento parafrasando il “dente per dente” della Bibbia – e forse non inconsapevole che entrambe le mogli in questione sono solo un pretesto, essendo innocenti.
In realtà dovrebbe dire “gelosia per gelosia”. E anche “degradazione per degradazione”, dal momento che vuole far scendere Otello dalla altezza dei nobili sentimenti (che lui non ha) a quelli più bassi e animaleschi (più simili ai suoi).
Con in più la rivalsa di sentirsi finalmente da più di lui nel menarlo per il naso.

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Noto, in margine del margine, che la definizione di Otello come “carattere franco e aperto” (the Moor is of a free and open nature) è usata tale e quale dal suo amico e rivale Ben Jonson per descrivere Shakespeare stesso: “…was indeed honest, and of an open and free nature“. Chi lo sa se Jonson era consapevole o meno di descriverlo come Otello – e nello stesso tempo aggiungendo alla descrizione l’attributo (honest) che nella tragedia così spesso precede il nome di Iago.

in margine a Otello (Iago e l’amore)

RODERIGO – Che mi resta da fare? Confesso che è una mia vergogna essere così innamorato, ma non è nelle mie virtù guarirne.

IAGO – Virtù? Un corno! Sta in noi stessi essere così o colà. I nostri corpi sono giardini di cui la nostra volontà è il giardiniere. Sicché se vogliamo piantare ortiche o seminare lattuga, mettere l’issopo e sradicare il timo, coltivarlo con un solo tipo di erbe o suddividerlo tra specie diverse, mantenerlo incolto per pigrizia o ben curato con solerzia – beh, la capacità di modellarlo sta tutta nella nostra volontà.
Se la bilancia delle nostre vite non avesse la ragione a far da contrappeso alla sensualità, il sangue e la bassezza degli istinti ci porterebbero alle più scombinate conseguenze. Ma abbiamo la ragione a raffreddare le voglie furiose, gli stimoli della carne, le libidini sfrenate. E perciò questo, che tu chiami amore, io non lo considero altro che un butto o un pollone.
Non si tratta che di una libidine del sangue, un’acquiescenza della volontà.

Sembra quasi il sermone di un prete. Vi riconosciamo molti luoghi comuni che potrebbero essere usati da un predicatore o da un seminarista (l’idea agostiniana che il peccato avviene per il consenso che gli dà la volontà, l’immagine che fu di Santa Teresa del buon cristiano come giardiniere, che si rifà a sua volta a San Paolo nella lettera ai Galati -“Ciascuno raccoglierà ciò che avrà seminato” – ecc.). Ma questi luoghi comuni della morale cristiana vengono usati da Iago, non per elevare, ma per abbindolare l’ingenuo e sciocco Roderigo, innamorato perdutamente di Desdemona, e convincerlo a una condotta “bassa”. Nel seguito del discorso infatti lo convincerà che potrà “godersi” Desdemona, anche se ormai è sposata, se la corteggerà con fredda determinazione, corrompendola attraverso regali – regali che in realtà intende incamerare lui stesso.

Ciò che conta tuttavia nelle parole su riportate di Iago è soprattutto il senso che dà alla parola “amore”, inteso come nient’altro che nuda sessualità animale, e alla parola “ragione”, intesa come negazione delle emozioni e degli aspetti affettivi. Non a caso Iago è davvero convinto che Desdemona si farà corrompere, se non dai doni dello sciocco Roderigo, dalla prestanza di Cassio, il quale a suo modo di vedere, essendo un giovane maschio di mondo, va da sé che non può non “amarla”, cioè, secondo la sua visione del mondo, concupirla sessualmente, così come lei, essendo sposata a un uomo non bello, poco raffinato e più maturo di lei, avrà presto voglia di nuove, più eccitanti esperienze. “Che Cassio la ami, lo credo con certezza; che lei ami lui, è cosa ch si accorda con le circostanze, e molto credibile”, dirà in soliloquio, e dunque in sincerità.
È interessante vedere come la riduzione del sesso a “basso istinto” spoglio di risonanze emotive o affettive possa condurre, da un lato, alla morale repressiva cristiana e dall’altro, come faccia della stessa medaglia, alla riduzione dell’altro a corpo, da usare per il proprio piacere o tornaconto.

in margine a Otello (Iago)

Iago è stato per lo più considerato come un esempio di perfidia diabolica: quella da cui in genere ci si vuole ritenere immuni, spesso ostentando di non comprendere nemmeno come sia possibile che esista.

Tuttavia, a ben vedere, la morale di Iago è molto comune e diffusa.
È in fondo quella, permeata da cinismo e invidia, che spinge a ridurre e abbassare chiunque appaia migliore o più fortunato alla propria misera misura. Gli Iago non possono ammettere che qualche sentimento o azione, o qualche persona, sfugga alla regola del piccolo tornaconto individuale e aspiri a qualcosa di più alto. Per loro non esistono idealismo e nobiltà d’animo né sentimenti grandi e disinteressati: si tratta solo di manifestazioni di ingenuità sconfinanti con la balordaggine o con la vanità, e in ogni caso destinate a rivelare ombre e macchie segrete. Sicché poi non manca, tra i portatori di tale morale, che spesso si atteggiano a giudici severi dei comportamenti altrui, una certa soddisfazione ogni volta che sia possibile individuare magagne in chi sia oggetto di pubblica ammirazione.

Questa visione scettica e pessimistica del mondo a volte viene scambiata per una sorta di lucido e disincantato realismo. La differenza tuttavia sta nel fatto che, quando si tratta della visione filosofica di un Leopardi o di altro grande spirito, essa porta al distacco dal proprio personale interesse, mentre nel caso degli Iago diviene, al contrario, un sostegno e una giustificazione a perseguire solo il proprio interesse particolare, al di là di ogni scrupolo o compassione.

È vero: non tutti gli Iago che siedono nei bar a soppesare le carni delle donne e a parlare di corna, e magari ad avvertirne premurosamente gli amici, o che insinuano calunnie sui colleghi di successo, o quelli che scrivono retroscena sui giornali o si affacciano agli schermi televisivi a lodare la propria onestà contrapposta all’altrui incapacità o nefandezza, sono poi determinati come il loro prototipo a far strangolare qualche sposa nel suo letto. Senza dubbio però testimoniano di quanto sia comune e condiviso l’animus di uno Iago nella nostra vita quotidiana.

In margine a Otello (Che cosa sono le nuvole?)

Nel primo atto dell’Otello di Shakespeare, quando Brabanzio, il padre di Desdemona, infuriato per il matrimonio di sua figlia con Otello, fatto a sua insaputa, vorrebbe che il Doge prendesse le sue parti contro il Moro, si sente rispondere di portare pazienza. Otello è necessario alla Repubblica per combattere i Turchi che vorrebbero impossessarsi di Cipro – e per di più ha saputo convincere e commuovere gli Anziani col racconto del suo amore.
Il padre tuttavia, che si sente tradito dalla figlia, non riesce a calmare il doloroso bruciore dell’offesa.
E il Doge allora tenta con ragionevoli parole di fargli accettare il fatto compiuto. Ecco qui di seguito il dialogo:

DOGE – Lascia che ti parli come fossi tu stesso, e ti offra una massima che come il gradino d’una scala possa condurti ad accogliere questi due amanti nel tuo favore. Quando non è più tempo di rimedi, anche i dolori hanno fine, dal momento che quel peggio che prima era ancora sospeso alla speranza, ormai lo si è visto accadere. Piangere un danno ormai bell’e avvenuto, non è che la via più breve per procurarsi nuovo danno. Quando la fortuna ci priva di ciò che non può più essere preservato, la sopportazione toglie forza all’offesa e può farsene beffa. Il derubato che sorride ruba qualcosa al ladro, mentre ruba a se stesso chi si consuma in un inutile dolore.

BRABANZIO – Se è così, lasciamo allora che il Turco ci sottragga Cipro: tanto, finché sorridiamo non l’abbiamo persa. Il tuo ragionamento sentenzioso va bene per chi non ha nulla da sopportare e può trarre da esso del conforto a buon mercato. Ma chi ha da sopportare sia tale sentenziosità che il proprio dolore, deve per compensare la sua sofferenza rivolgersi per un prestito a una pazienza povera in canna. Queste massime buone con ugual forza sia a inzuccherare che ad amareggiare, non valgono in entrambi i casi. Le parole non sono che parole – e io non ho mai sentito che un cuore a pezzi fosse curato attraverso l’udito.

Piacque a Pasolini questo scambio di battute. Nella riduzione cinematografica dell’Otello (il cortometraggio Che cosa sono le nuvole?, apparso come episodio nel film Capriccio all’italiana, 1967), Pasolini volle inserire una canzone musicata e cantata da Modugno, il cui testo non è che un centone di versi tratti dalla tragedia shakespeariana. Fra gli altri, compaiono anche le parti che ho sottolineato del dialogo su riportato.

Riporto qui il testo della canzone con tra parentesi i versi shakespeariani.

«Ch’io possa esser dannato
se non ti amo. E se così non fosse
non capirei più niente.
(Perdition catch my soul, /But I do love thee! And when I love thee not, / Chaos is come again, Atto III, 3)
Tutto il mio folle amore
lo soffia il cielo , lo soffia il cielo… così
(All my fond love thus I blow to heaven, atto III,3)
Ah! Malerba soavemente delicata
di un profumo che dà gli spasimi!
Ah! tu non fossi mai nata!
(O thou weed! /Who art so lovely fair and smell so sweet / That the sense aches at thee, would thou hadst ne’er been born. Atto IV,2)
Tutto il mio folle amore ecc.

Il derubato che sorride
ruba qualcosa al ladro, ma il derubato che piange,
ruba qualcosa a se stesso.
(The robb’d that smiles steals something from the thief,/ He robs himself that spends a bootless grief. Atto I,3)
Perciò io mi dico
finché sorriderò, tu non sarai perduta.
(We lose it not so long as we can smile. Atto I, 3)

Ma queste son parole
e non ho mai sentito
che un cuore, un cuore affranto
si cura con l’udito
(But words are words; I never yet did hear / That the bruis’d heart was pierced through the ear. Atto I, 3) /
Tutto il mio folle amore ecc.»

Le prime tre citazioni sono battute di Otello. Le altre si riferiscono al dialogo tra il Doge e il padre di Desdemona.
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Su You Tube è possibile vedere l’intero cortometraggio. Dura venti minuti. È una delle cose più belle del cinema di Pasolini