È curioso apprendere che Iago si dice* che fosse interpretato la prima volta da Robert Armin, l’attore comico della compagnia dei Chamberlain’s Men, di cui sia lui che Shakespeare erano soci.
Armin aveva sostituito nel 1600 William Kemp, un altro popolarissimo comico che aveva lasciato la compagnia, cambiando con la sua diversa personalità il tipo di clown che avevano fino allora popolato il teatro di Shakespeare.
Non era uno qualsiasi questo Armin. Originariamente un orefice, minuto di corporatura, agile, intelligente, ricco di bizzarra fantasia e anche di capacità musicali, era già – al tempo in cui entrò nella compagnia – un autore noto e popolare di varie ballate, di qualche commedia da lui stesso rappresentata e anche di scritti, il più importante dei quali è un trattatello intitolato Fool upon Fool. In esso, dichiarandosi lui stesso uno di loro, suddivideva i fool (i Buffoni, i Matti giullari) in varie categorie, fornendo notizie, testimonianze e riflessioni sulla loro comicità e sulle loro sgangherate, precarie e spesso disgraziatissime vite.
Gli interessava soprattutto il filo sottile e non sempre distinguibile che separava e a volte univa in un’unica figura il “matto professionale” e il “matto naturale”, sottolineando la funzione servile e a un tempo sovversiva di queste presenze nelle corti e nelle case dei potenti – presenze adatte a smascherare la follia dei grandi e, in generale, l’inquietante indefinitezza del confine tra sanità e follia.
Per Armin – e ispirandosi alle sue varie doti sceniche, al suo particolare spirito “filosofico” ironicamente amaro e cinico, oltre che ai suoi scritti – Shakespeare ha creato i grandi Fool o Buffoni del proprio teatro, tra cui i più memorabili sono Touchstone (Come vi piace), Feste (La dodicesima notte), il Matto di Re Lear, Autolico (Il racconto d’inverno).
Tutti personaggi dallo spirito acuto, dalla vena satirica velata di malinconia, capace di individuare le debolezze e le contraddizioni comuni e dei potenti, di smascherare l’inconsistenza e la follia dei comportamenti, la scarsa conoscenza di sé degli esseri umani.
Ma che cosa ha in comune Iago con questi Buffoni o Matti? Perché la sua parte venne affidata ad Armin?
Una prima risposta la dà Otello, che dice (atto 3, sc.3) che Iago “conosce, con spirito di studioso**, tutti gli aspetti dei comportamenti umani”.
Come i Buffoni (Fool), dunque, Iago sa vedere con cinico disincanto e far emergere le debolezze degli altri. Come i Buffoni, sa anche intrattenere per ingraziarseli i signori da cui dipende con strofette e battute salaci, piene di allusioni oscene (vedi le sue improvvisazioni per distrarre Desdemona mentre attende a Cipro l’arrivo del Moro – Atto 2, sc.1) o sa essere il gioviale compagno di bevute con i suoi camerati – come già Feste nella cucina della padrona nella Dodicesima notte, ma, a differenza di Feste, senza alcuno spirito di solidarietà.
Ha le doti e l’arte scenica di un comico, Iago.
Condivide soprattutto con i Buffoni- e questo è il punto più significativo – la posizione servile e indubbiamente il risentimento che da questa proviene e che si può tradurre in potenzialità eversiva o in sadica crudeltà – sfiorata anche da Feste nel corso della beffa contro Malvolio.
Eppure Iago è profondamente diverso dai veri e propri Buffoni, e più che mai dal dolente, malinconico e filosofico Feste.
La trama beffarda cui partecipa Feste per dare una lezione al presuntuoso e sprezzante Malvolio, puritano ipocrita e nemico dell’arte oltre che della gioiosità della vita – o anche le crudeli strofe del Matto che mettono Lear di fronte a se stesso ricordandogli il proprio catastrofico errore – hanno l’aspetto di un’amarissima medicina somministrata per un sorta di finalità terapeutica, senza alcun vantaggio personale per chi la somministra – tranne forse una certa soddisfazione teatrale, artistica.
Iago anche lui si prende una soddisfazione artistica nel dirigere come burattini le sue vittime, ma la sua finalità non è terapeutica: non somministra loro una amara medicina, ma versa del “veleno mortale nelle loro orecchie”. Non intende svelare le contraddizioni o le miserie che si nascondano al fondo di comportamenti apparentemente nobili, alti e idealistici, ma vuole distruggere ogni possibile idealità o ricerca di bene.
Iago usa la sua conoscenza delle debolezze umane per accendere propositi criminosi nelle persone che manipola, per imbestiarle, abbassarle al proprio livello, esercitare sulle loro vite il potere che gli dà la propria aridità affettiva, rovinarle e trarre un vantaggio personale. Il vantaggio del potere appunto.
Vuole come un ragno “far cadere tutti loro nella rete”.
Tutti loro. “Loro” sono il prossimo in generale, e in particolare i migliori di lui, i privilegiati da un punto di vista sociale ma anche da quello spirituale (cose anche queste indistricabili, perché cultura, educazione, assenza di bisogno rendono più accessibili anche le virtù e la magnanimità, che quindi agli occhi di Iago sono anch’esse forme di quel privilegio da cui si sente escluso). “Tutti”, infatti, sono oggetto del risentimento: gli imbecilli, i cialtroni, i carrieristi, gli eroi osannati e anche i buoni e generosi, gli innocenti come Desdemona.

Iago interpretato da Totò in “Che cosa sono le nuvole?” di P.P.Pasolini. Attraverso un suo personalissimo percorso, anche Pasolini affidò il ruolo di Iago a un grande comico, surreale e umano.
Questo del resto è l’aspetto che è stato definito diabolico di Iago, e che si rifà infatti alle rappresentazioni morali (i Morality Plays) che tanto successo avevano avuto fino agli anni immediatamente precedenti alla fioritura del teatro elisabettiano. Nei Morality Plays non a caso l’emissario del diavolo, il Vizio, che cerca di irretire le anime era sempre un personaggio comico – il clown dall’abito tutto toppe prototipo di Arlecchino.
Ma Iago non è davvero un comico. Non fa ridere. Non è una maschera né un emissario del diavolo destinato alla derisione e alla sconfitta: è semplicemente un aspetto infelice dell’umanità.
Forse Armin, l’istrione interessato come Shakespeare stesso agli sconfinamenti tra ragione e follia e allo spirito di risentimento, sadico e però anche autolesionistico, dei bistrattati fool, davvero può essere stato il migliore interprete di Iago, e in parte deve avergli donato qualcosa del suo amaro spirito – forse persino della sua infelicità.
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* Vedi Gary Schmidgall, Shakespeare and the Poet’s Life. University Press of Kentucky, 2010.
** Il corsivo è mio: lo spirito di studioso sembra quasi un diretto riferimento a Robert Armin.