Lo zio David guardava con disprezzo e sufficienza a queste opinioni tanto invise quanto diffuse, come l’antisemitismo cattolico che echeggiava tra le arcate di pietra delle imponenti cattedrali, l’antisemitismo protestante freddo e letale, il razzismo tedesco, la sete assassina austriaca, l’odio antiebraico polacco, la crudeltà lituana, ungherese, francese, la sete di potere ucraina, rumena, russa, croata, il disgusto per l’ebreo in Belgio, Olanda, Inghilterra, Irlanda, Scandinavia. Tutto ciò non lo considerava altro che l’oscuro retaggio di eoni selvaggi e ignoranti, avanzi del passato per i quali era ormai giunto il momento di sparire.
Lo zio David si considerava a casa, nel suo tempo: era un europeo in tutto e per tutto, multiculturale, multilingue, disinvolto, di talento, illuminato, un uomo decisamente moderno. Disprezzava i pregiudizi e gli odi etnici oscurantisti, così per nessuna ragione al mondo l’avrebbe data vinta a quei razzisti dagli orizzonti ristretti, ai sobillatori sciovinisti, ai demagoghi e agli antisemiti intrisi di una fede vana, la cui voce tuonava “morte ai giudei!” e abbaiava contro di lui dai muri, “giudeo, vattene in Palestina!”.
In Palestina? Certo che no: uno come lui non avrebbe mai preso la giovane moglie e il figlio neonato per disertare dal fronte e fuggire al riparo dalla violenza di quest’accozzaglia oscura, per rintanarsi in un’arida provincia del Levante, là dove alcuni ebrei erano impegnati a preparare una nazione segregazionista e armata, per ironia della sorte imparando dai peggiori fra i loro nemici.
No: zio David sarebbe rimasto qui, a Vilna, di guardia, sulle frontiere più avanzate dei Lumi di quell’Europa razionale e lungimirante, tollerante e liberale, ora alle prese con orde di barbari che minacciavano di travolgerla. Qui sarebbe rimasto, perché non avrebbe potuto altrimenti.
Rimase. Fino alla fine.
da Amos Oz, Una storia di amore e di tenebra, traduzione di Elena Lowenthal, Feltrinelli 2002.