faziosamente

Era faziosa la manifestazione
ha detto il nostro eletto presidente
del consiglio – il cui sorriso abituale
da un po' riesce male ed è piuttosto
un digrignare di dentiera, un ghigno.
Lo capisco. Forse vorrebbe
che si manifestasse super partes
come a lui piace, il super liberale,
e pensa di emanare un bel decreto
per stabilire che se scende in piazza
il dissenso lo può fare, ma solo
a condizione di esibire striscioni
con scritte cubitali di consenso
e diffondere ad altissimo volume,
se non proprio la voce del padrone,
quelle di Sallusti o Capezzone,
di Gelmini magari o Santanché
o, in mancanza, del canterino gregge
cui non duole che ancora Silvio c'è.

penna e inchiostro – punti di vista diversi

Come il sole che gioca su un'acqua cristallina
e riluce rifratto in altri di raggi
così bella rifulge agli occhi miei:
vorrei farle la corte, ma non oso dire nulla.
Penna e inchiostro mi ci vogliono,
e scriverlo, ciò che sento.

Così dice tra sé il conte di Suffolk, incantato alla vista di Margherita d'Angiò, nell'Enrico VI Parte Prima di Shakespeare, atto V, sc.iii .

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JACK CADE (capo popolo) – Di' un po': sai scrivere il tuo nome o firmi con un segno di croce come ogni uomo che si rispetti?

L'ISTRUITO  – Grazie a Dio ho avuto una buona istruzione, tanto che so scrivere il mio nome.

LA FOLLA – Uccidiamolo! È un traditore, un vigliacco!

JACK CADE – Su! sia impiccato! con al collo la penna e anche l'inchiostro.

(battute di una rivolta popolare durante il regno di Enrico VI d'inghilterra, dall' Enrico VI Parte Seconda di Shakespeare, atto IV,sc Ii)

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La cultura come fatto di classe. Nelle rivolte popolari dei secoli passati si distruggevano le carte, i registri, le scritture attraverso le quali i proprietari e i nobili ribadivano il loro potere. Di qui l'odio per il latinorum dei don Abbondio e degli Azzeccagarbugli, adatto a gabbare il popolo.
Siccome però la storia è ironica, il disprezzo per la penna e l'inchiostro, per il "culturame" e per gli intellettuali, è stato poi usato dai vari fascismi proprio per continuare ad ingannare populisticamente il popolo (bue), attraverso nuovi e telegenici Azzeccagarbugli e don Abbondi, che si adoperano a mantenere e coltivare l'ignoranza della massa, per ribadire e proteggere l'interesse e i privilegi di pochi innominati .

amuleto

Primo d'agosto. Sporadici motori
– di aerei invisibili, remoti, di rare
automobili – rigano appena
la quiete domenicale dei viali.
Nel silenzio inusuale il lieve
acciottolio di una lavastoviglie
giunge dalle finestre aperte
come un'eco lontana di ruscelli.
Tacciono persino le cicale.
Lascio i tristi giornali sul divano
e, indossati gli abiti curiali,
ritorno alla lettura di Bolaño,
ai suoi poeti erranti con la luna
che si frange lucida nei bagni.

Il  romanzo di Roberto Bolaño cui mi riferisco, è Amuleto.
Diversamente da altre storie di
Bolaño, qui la narratrice in prima persona è una sola: Auxilio Lacouture, una poetessa uruguayana, personaggio già apparso di sfuggita, quasi solo una comparsa, ne I detective selvaggi, dove si raccontava come, durante l'irruzione della polizia nell'Università del Messico nel 1968, fosse rimasta per vari giorni chiusa nel bagno.
In Amuleto Auxilio, amica,  anzi "madre" dei poeti  e bohemien di Città del Messico, fa  di quell'episodio drammatico il cuore da cui si sprigiona tutta la sua narrazione, che, anziché essere, come solitamente in
Bolaño, rifranta in più voci, si frange nel prisma del tempo: chiusa nei bagni delle donne dell'Università svuotata, Auxilio vede di là, come riflesso nelle lucide piastrelle su cui "si sposta la luna con passettini da gatto",  il suo passato e il futuro mescolati al presente, e  il destino del Messico e in generale dell'America Latina. Chi ha già letto I detective selvaggi ritrova qui vari suoi personaggi, tra cui Arturo Belano, diciassettenne (come si conviene al suo nome), e Ernesto San Epifanio, e vi trova anche prefigurata la data 2666 che darà il titolo alla grande opera postuma dell'autore. Proprio riferendosi a questi due poeti, Auxilio narra a un certo punto di averli visti e seguiti per le vie di Città del Messico,  e dice:

"Li vidi camminare con passo leggero su Bucareli fino a Reforma e poi li vidi attraversare Reforma senza aspettare il verde, tutti e due con i capelli lunghi e scarmigliati perché a quell'ora su Reforma soffia il vento notturno che è rimasto alla sera, e il Paseo si trasforma in un tubo trasparente, in un polmone cuneiforme da cui passano i respiri immaginari della città, e poi cominciammo a camminare per Avenida Guerrero, loro un po' più piano di prima, io un po' più depressa, la Guerrero a quell'ora sembra più che altro un cimitero, ma non un cimitero del 1974, né un cimitero del 1968, né un cimitero del 1975, ma un cimitero del 2666, un cimitero dimenticato sotto una palpebra morta o mai nata, le acquosità spassionate di un occhio che per dimenticare qualcosa ha finito col dimenticare tutto."

(da Amuleto, (traduz. di Ilide Carmignani, Adelphi, 2010)

Giornata del Libro: false e vere coincidenze, supposizioni e palinsesti

Domani è il giorno di Shakespeare: l’anniversario della sua morte (1616) e anche, dato  che fu battezzato il 26 di questo mese, quello della sua nascita probabilmente. Date coincidenti, come quelle dell’araba fenice.
Anche Cervantes morì il 23 aprile del 1616. E per questa coincidenza tale giorno è stato scelto dall’Unesco come data per Giornata internazionale del Libro.
Ma la coincidenza è solo convenzionale: in realtà Cervantes precedette Shakespeare nell’Elisio di dieci giorni. Il calendario inglese, infatti, a differenza di quello spagnolo, non si era ancora uniformato a quello introdotto nel 1582 dal papa Gregorio XII, sicché il 23 aprile in cui morì Cervantes, era in Inghilterra solo il 13 dello stesso mese. Ne consegue d’altra parte che domani, 23 aprile del calendario gregoriano, non è nemmeno la vera data della morte (e forse della nascita) di Shakespeare: per coincidere davvero nel computo dei giorni, andrebbe spostata in avanti,  fino al 3 maggio – se non sbaglio. Sicché insomma  in questo giorno, alla fine forse morì solo Cervantes: “forse”, perché pare che in realtà morisse il 22 e la data del 23 si riferisca al funerale.
La cosa non è importante tuttavia:  è solo una curiosità. Di fatto di nessuno dei due si può affermare che sia morto: sono entrambi più vivi di molti viventi.


Sarebbe bello pensare che i due grandi contemporanei si siano conosciuti. Qualcuno ci ha fantasticato su. Per esempio  Astrana Marín ,  studioso e biografo di Cervantes e anche di Shakespeare, immaginò un loro possibile incontro in occasione del Trattato  tra Spagna e Inghilterra ratificato a Madrid nel giugno 1605, che era l’anno stesso in cui fu pubblicato il Don Chisciotte. Shakespeare avrebbe potuto trovarsi allora in Spagna al seguito del conte di Nottingham, e aver magari stretto la mano a Cervantes, forse, chissà, aver bevuto con lui un bicchiere di vino, scambiando qualche parola in un poetico spanglish.
Ma si tratta solo di supposizioni. Di desideri dell’immaginazione. Seguendo tali desideri, c’è stato anche chi (Francis Carr) ha supposto ancora più fantasiosamente che i due fossero una sola persona: un unico genio, capace di scrivere sia il romanzo di Cervantes che le tragedie e commedie di Shakespeare – e questo genio poliglotta, e prolifico più che Stephen King, sarebbe stato Bacone.

Io, che sono tra quelli che pensano che Shakespeare il poeta fosse effettivamente l’attore figlio del guantaio di Stratford e trovo più eccitante seguire il filo stupefacente delle ricerche negli archivi che quello delle fantasie, provo emozione nel pensare che, non in una fiction, ma nella realtà Shakespeare ha effettivamente conosciuto Cervantes. Non di persona, forse, ma per aver letto il Don Chisciotte, uscito in traduzione inglese nel 1612, e già circolante e famoso e variamente citato anche negli anni precedenti, fin dal 1607, a quanto pare (anche questa velocità di diffusione internazionale della fama di un libro, in un’epoca che ci figuriamo più lenta della nostra, dona non poco piacere a sapersi).
Che Shakespeare l’abbia letto è sicuro: non solo per la notorietà che il romanzo si era immediatamente acquistata anche a Londra, ma perchè esiste documentazione del fatto che nella tarda primavera del 1613 mise in scena una commedia, scritta in collaborazione con Fletcher, intitolata Cardenio, che altro non era che la trasposizione di una storia narrata nel Don Chisciotte. La commedia è andata perduta – forse distrutta nell’incendio del Globe Theater, avvenuto proprio nel 1613, forse sparita dopo per distrazione, passando di mano in mano – ma a prova della sua esistenza si sono trovati, a partire dalla fine del 1700, vari documenti, tra cui la registrazione dei pagamenti dati  agli attori della compagnia dei King’s Men (la compagnia di Shakespeare) per la sua rappresentazione a corte.

 

 

 

 

 

G.Doré: Cardenio racconta a don Chisciotte la sua storia

Recentemente si è tornati a parlare del Cardenio, perché gli editori delle prestigiose edizioni Arden ( The Arden Shakespeare ) hanno incluso nella serie delle opere shakespeariane una commedia intitolata  Double Falsehood (o The distressed Lovers) che  si rifà appunto alla storia di Cardenio  del Don Chisciotte e che, secondo loro e altri studiosi, porta in sé come in trasparenza tracce riconoscibili del misterioso Cardenio scomparso.
Double Falsehood fu pubblicata nel 1728, dallo scrittore Lewis Theobald, che era, fra l’altro, un appassionato shakespeariano. Theobald sosteneva che fosse un testo di Shakespeare che lui si era limitato a riadattare e curare e che gli era giunto attraverso tre vecchie copie dell’originale – una delle quali piuttosto autorevole, perché di mano del “suggeritore” della compagnia di William Davenant (questo Davenant, autore teatrale, poeta laureato e allestitore delle opere di Shakespeare, che rappresentava tuttavia con vari e consistenti rimaneggiamenti, era il figlio di un oste di Oxford, presso il quale Shakespeare usava fermarsi durante i suoi viaggi tra Londra e Stratford-upon-Avon. Shakespeare gli aveva fatto da padrino – come testimonia anche il suo nome, William –  e Davenant si compiaceva non solo di ricordare di essere stato tenuto sulle ginocchia dal famoso poeta, ma anche di lasciar credere d’essere in realtà un suo figlio naturale).

Nonostante le ribadite dichiarazioni di Theobald, la commedia dall’ominoso titolo (double falsehood = doppia falsità)  fu sempre considerata dai più un completo falso.
Tuttavia c’è stato anche chi si è chiesto  se Double Falsehood non fosse davvero basata invece sul vecchio testo perduto di questo Cardenio, di cui Theobald poteva avere effettivamente trovato copie, benché rimaneggiate e corrotte – probabilmente da Davenant stesso e dal famosissimo attore Betterton, della sua compagnia – lo stesso che faceva impazzire di piacere il mio Pepys quando a teatro rivestiva i panni di Amleto.
La discussione è ancora aperta, anche se il curatore della edizione Arden di Double Falsehood, Brean Hammond professore dell’Università di Nottingham, presenta, in una ricchissima, dettagliata e appassionante prefazione, vari motivi abbastanza convincenti a sostegno della convinzione, sua e di altri, della presenza in quel testo (o forse sarebbe meglio dire nel palinsesto) della riconoscibile mano di Shakespeare.

Dietro tutta questa vicenda aleggia naturalmente anche il sorriso di Cervantes – del quale va detto tuttavia che, pur così legato a Shakespeare nella nostra immaginazione e nella suggestione delle date, quasi certamente non seppe in vita nulla del suo grande contemporaneo inglese, né di come si fossero incontrati nel racconto narrato tra le rocce della Sierra Morena a don Chisciotte da Cardenio.

(Le notizie, oltre che da varie vecchie letture, le ho tratte in molta parte dalla citata prefazione di Brean Hammond a Double Falsehood)

ACQUA

Si discute in Parlamento la legge che ridurrà a quote minoritarie la mano pubblica nella gestione dell’acqua. Tutti possono informarsi e leggere di che si tratta perché ne parlano tutti i giornali.

A me sono venuti in mente i versi giovanili di Pasolini, l’incipit o meglio la Dedica delle sue Poesie a Casarsa (1941- 1943):

Fontana di aga dal me país.

A no è aga pí fres-cia che tal me país.

Fontana di rustic amòur.

E sono andata a cercare anche l’amaro rifacimento pubblicato nel maggio 1975:

Fontana di aga di un país no me.

A no è aga pí vecia che ta chel país.

Fontana di amòur par nissún.

(da La nuova gioventù, Einaudi, Torino, 1975)

Fontana d’acqua del mio paese. Non c’è acqua più fresca che nel mio paese. Fontana di rustico amore.

Fontana d’acqua di un paese non mio. Non c’è acqua più vecchia che in quel paese. Fontana di amore per nessuno.

Eluana e gli stormi di avvoltoi

Oggi su La Stampa un bellissimo articolo di GUIDO CERONETTI che ricopio qui di seguito per quelli cui fosse sfuggito:

Eluana e gli stormi di avvoltoi

di GUIDO CERONETTI

Non permettiamo che si raffreddi. Il caso Englaro va riattizzato costantemente: che davanti a quel Golgotha arda un lume sempre. Tutti dobbiamo gratitudine a quella vittima sacrificale e alla sua famiglia: perché la passione civile non finisca in una cloaca e la passione etica e religiosa trovino altre e ben diverse, e superiori, vie.

Si sono visti stormi di avvoltoi, sulla breve agonia di Udine, scendere in picchiata a disputarsi i resti di una creatura disfatta e sfamarsi a beccate ignobili di qualcosa che già più non era e che altro non aveva da offrirgli, tetri pennuti ciechi, che carne di sventura.

Tale lo spettacolo, da iscrivere nel tragico delle cronache italiane che non avranno uno Stendhal per trascriverle. L’Italia, se qualcuno vorrà capirla sine ira et studio, non è un luogo pacifico, non è una penisola turistica, non è un animale da stabulario economico – l’Italia è, è stata sempre, una città di risse feroci, di brigantaggio, di vendette, di medioevi e di cattivi governi. Gli avvoltoi, che non si annidano soltanto sulle torri dei Parsi a Benares, hanno voliere, spalti, e più d’una cupola anche a Roma, e non c’è televisione o campo di calcio in grado di oscurarne la presenza e il volo. Qua, dunque, non si può vivere avendo per fine esclusivamente il far soldi e pensare alla salute. Qua si nasce perché l’Italia ci faccia male, ci ferisca, ci sia una madre crudele, inzuppata di sadismo. Vederlo o non vederlo: that is the question.

L’imbarbarimento di profondità, progressivo, non è da statistiche. Puoi vederlo chiaramente anche lì: nel pullulare di cure mediche di spavento, nell’ignorare i limiti sacri della vita, i diritti dei morenti e di «nostra sirocchia morte corporale» – cure di coma irreversibili criminalmente protratti, cure che la tecnomedicina, settorialista e antiolistica, sempre più andrà sperimentando sulla totalità del vivente.

L’Italia debole, che con strenuo sforzo – in cui va compreso il tributo di una risalita coscienza collettiva, di risorse d’anima e mentali inapparenti, antiavvoltoio, di pensieri silenziosi ma renitenti ai ricatti e alle violenze verbali dell’estremismo cattolico, materialista e anticristico – ha liberato dalle catene Eluana, è un resto di Italia dei giusti, di Italia che sa giudicare umanamente e cerca la libertà nella legge, che non accetta che l’impurità più grossolanamente sofistica prevalga sulla verità semplice e pura.

Dobbiamo un po’ tutti ri-imparare a morire: dunque a vivere e a trascendere la morte. Comprendere l’insignificanza della vita e dell’esistenza materiale è luce in tenebris.

Per chi, pensando, ritenga che la vera salvezza consista nel liberarsi dalla schiavitù delle rinascite in corpi mortali, Eluana col suo lungo martirio avrà meritato la tregua nirvanica, e non tornerà in mondi come questo a patire sondini e beccate di avvoltoi – condannati, per loro intrinseca natura, a commettere empietà.

Da cristiani autentici si sono comportate le Chiese evangeliche: schierate dalla parte di Eluana, hanno voluto ricordare che un essere umano non è soltanto un aggregato scimmiesco di funzioni e che è delitto tradirne l’anelito al padre ignoto al di là del finito.

Il combattimento spirituale è brutale. La meno ingiusta Italia, che assumerà Eluana per segno, non deve temere di accettarlo, di restare unita, respinto l’avvoltoio, per la pietà e la luce.

di Guido Ceronetti (su LA STAMPA del 14.2.2009)

tutto il cucuzzaro

Oramai è troppo tardi, temo, carissimo Michele Serra (vedi la sua Amaca del 26 giugno, che riporto qui sotto, nel commento #2).
Era ai tempi di Craxi, prima del 1993, prima della fondazione di Forza Italia, che si sarebbe dovuta promulgare una bella legge ad personam, una legge trasversale (o di unità nazionale) che dichiarasse Silvio Berlusconi, lui solo, perennemente ingiudicabile da qualsiasi tribunale del nostro Stato. In nome dell’interesse supremo della Repubblica. Per evitare cioè che si mettesse in politica e ci trascinasse al mal punto in cui ci troviamo.

Oramai è tardi. Ha preso troppo gusto a fare il padreterno: ora vuole tutto il cucuzzaro.

 

  Anna Guala

La gioia concessa

 su Feaci poesia

Le poesie di Anna Guala nascono dall’esperienza dolorosa del senso di precarietà che si scopre quando la trama, apparentemente tenace, degli affetti e delle relazioni di cui è tessuta la vita, improvvisamente si lacera e mostra le sue falle, interrompendo contatti quotidiani, spezzando i fili delle corrispondenze, strappando lo stesso tessuto interiore del sentimento di sé. Non sembrano esserci scudi, allora, dietro cui trovare riparo, né spugne / per cancellare il volto / assurdo e crudele della vita...

La raccolta è divisa in due sezioni in qualche misura speculari. Nella prima, intitolata Distacchi, si dice dello strazio delle separazioni, quando le persone amate scompaiono in modo improvviso e inaspettato (senza poter più dire,/ senza una mano che si levi/ per l’ultimo saluto) oppure migrano lentamente nell’esilio di una sofferenza inesplicabile, che crudelmente le sottrae, pur se ancora vive, ad ogni colloquio.


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vecchi e nuovi Feaci

La corte dei Feaci, rinnovata nel suo look, si arricchisce di sempre nuove presenze, sia nello staff redazionale che nella sua vetrina.
È entrata a far parte della redazione una delle più interessanti scrittrici della rete, Zena Roncada. Sono di Zena le quarte di copertina degli ultimi e-book pubblicati: “In levare” di Massimo La Spina, “Le parole nostre” di Teréz Marosi, “Le Temps des Cerises” di Lino Di Gianni, “Angeli e case” di Anna Mallamo.
Il libro di quest’ultima, già nota e apprezzatissima dal pubblico dei Feaci, ha ispirato i bellissimi acquerelli del pittore e scrittore Mario Bianco, che corredano la pubblicazione: scritture parallele, “sinestesie a due voci”, come le definisce Zena Roncada nella sua nota di presentazione.

Tutte le prefazioni e le quarte di copertina sono ora disponibili in nuova pagina del sito, intitolata In margine, che ci auguriamo possa arricchirsi di nuovi contributi.