Tra le famose critiche che si possono fare alla politica del PD in questi anni, a me (che sono retriva), pare che una riguardi proprio l’istituzione delle primarie.
Queste hanno qualche senso quando si tratta di elezioni comunali o regionali, dove si vota poi direttamente per il sindaco. E ne avrebbero avuto anche se le si fosse adottate per le elezioni politiche [quest’anno è possibile che avvenga] allo scopo di contrastare la scelta verticistica delle liste dei candidati – a maggior ragione da quando la legge elettorale ha tolto agli elettori la possibilità di esprimere preferenze, giungendo così a ottenere un Parlamento di nominati anziché di eletti.
Di queste primarie così come sono, invece, non capisco bene il senso.
La nostra Costituzione non prevede, come quella americana, l’elezione diretta del capo del governo, ma (qualsiasi siano le norme della legge elettorale) ne assegna la scelta al Presidente della Repubblica.
Ne consegue che la scelta del “candidato premier”, non è una vera scelta per il semplice fatto che non esiste poi la possibilità per nessuno di candidarsi a tale carica.
Il premier (che premier non è, oltretutto, ma solo Presidente del Consiglio, che è piuttosto diverso) da noi non viene eletto, ma scelto appunto dal Capo di Stato sulla base dei risultati elettorali e delle alleanze che solo allora possono delinearsi in Parlamento.
Fu Berlusconi a introdurre l’uso di indicare sui simboli stessi dei partiti e delle coalizioni il nome del leader, cercando con ciò di scavalcare la Costituzione indirizzandola verso una specie di zoppo presidenzialismo di fatto.
Il PD purtroppo non si è mai opposto a questo processo. Non ha mai ricordato che la cosa contrastava con la Costituzione e che quindi, a meno che questa non venisse formalmente cambiata, non era ammissibile. Ha permesso insomma che si considerasse la nostra Carta un documento di cui si poteva non tenere conto – e, con l’istituzione delle primarie, ha dato maggiore forza a tale idea.
Ora i nodi vengono al pettine. Si comincia a vedere che il senso positivo delle primarie è limitato a quello di una mobilitazione che dovrebbe avere, in auspicio, una sorta di avvicinamento emotivo della politica ai cittadini.
Il senso negativo sta nella loro ambiguità: nessuno dei candidati può davvero assicurare con certezza ai cittadini il tipo di governo che sarà il suo, perché è evidente che ciò dipenderà dai risultati elettorali, dalla legge elettorale, e dalle alleanze che solo dopo sarà possibile effettivamente formare. Ogni affermazione, se sincera, non può che essere una semplice intenzione di tendenza, che lascia aperta la porta a molte variabili.
Questo dipende dal nostro ordinamento costituzionale, che non è né quello americano né quello francese o di altro Paese. Ma nell’ignoranza generale delle regole da parte di gran parte dei cittadini (colpevolmente mantenuta tale sia dalla maggioranza dei politici sia, ancora più colpevolmente, dagli organi di informazione) questa impossibilità di dare certezze assolute sul governo che verrà fuori viene attribuita a una sorta di “doppiezza” o “opacità” degli pseudo-candidati, considerati proni all “inciucio” (chiamato così anche quando si tratta di utile e necessario compromesso). Li si colpevolizza del fatto che non si possa da noi, come in America, sapere precisamente e nel giorno stesso in cui escono i risultati elettorali quale sarà il governo.
Ma il fatto è che il nostro ordinamento non è quello americano – e di conseguenza le nostre primarie sono solo pseudo-primarie. Per forza di cose, non per malignità delle nomenklature – tutt’al più per quella tendenza “sognatrice” e confusa del loro inventore (il buon Veltroni) che non riuscì a essere contrastata efficacemente dai “cattivissimi” del PD.
Chi vota in queste primarie, vota per delle intenzioni, non per delle certezze.
Anche (ma non solo) per questo, tra parentesi, io voterò per Bersani: perché è l’unico che non finga di poter affermare fin d’ora con esattezza ciò che non può effettivamente affermare.