Un articolo di Adriano Sofri su Repubblica di oggi:
di ADRIANO SOFRI
Cadono muri, e lasciano vedere come siamo. Non era nel patto, non c’è stato un casting, non c’erano telecamere pronte. Sono arrivate molto dopo, tutto è arrivato molto dopo. Quelli che hanno fatto in tempo a scappare hanno poi raccontato: “Senza scarpe, senza telefonini…”. Avevano ragione, le scarpe sono state sempre la prima cosa nelle guerre. I telefonini sono diventati la prima, nelle paci.
Sono crollati i muri, e abbiamo visto un’umanità vera. Non che l’altra non sia vera, quella del casting e delle telecamere perenni, ma questa è un’altra cosa. Basta pensare al significato di una parola come “fratello”, qui e là. Questa è fraterna. Induce a fare un discorsetto sopra lo stato d’animo degli italiani.
Mentre la luna andava verso il plenilunio, le notti scorse, si pensava a chi, all’addiaccio o venuto fuori dalle tende, se la vedesse splendere addosso dal suo cielo di rovine. I terremoti tolgono la fede ad alcuni, in altri la rinsaldano. Io non ce l’ho né la rimpiango, ma ricordo mia madre che pregava, e guardo mello schermo persone sedute in cerchio fuori dalla tenda che pregano, e pregherei con loro, se mi chiedessero di farlo. Ma per chi non abbia il conforto o l’illusione della religione, noi abbiamo Leopardi. Anche il sole di Foscolo, finché risplenderà sulle sciagure umane. Ma abbiamo soprattutto Leopardi. Abbiamo la luna.
Sappiamo che i cattivi cementieri sono farabutti e sono affar nostro, ma che la natura ci è distrattamente matrigna, e di troppo gran lunga superiore alle nostre forze; e però che la nostra natura, “incontro a questa / Congiunta esser pensando, / Siccome è il vero, ed ordinata in pria/ L’umana compagnia, / Tutti fra sé confederati estima / Gli uomini, e tutti abbraccia / Con vero amor, porgendo / Valida e pronta ed aspettando aita…”.
Avete sentito, in qualche tg, la vecchia signora che dal suo giaciglio raccontava le gambe spezzate del suo pianoforte e la profanazione dei suoi libri precipitati dagli scaffali e la sua vita dirottata al tramonto? Voci di solito ignote alla tv, improvvisamente sommerse, e riemerse a un microfono importuno a mostrare un’altra Italia. Succede ogni volta. Se ne sono ricordati in tanti, in questi giorni, della Ginestra. Per giunta, i nostri contemporanei pompeiani, contenti dei deserti, più accaniti delle ginestre, non fanno che risalire verso il cratere di un Vesuvio che i vulcanologi auscultano inascoltati.
La poesia è la più forte religione civile, per questo è bene imparare a memoria da bambini, per poterla rirecitare da vecchi, come una preghiera, la notte fuori da una tenda: “Che fai tu luna in ciel…” . Gli italiani danno il meglio di sé nell’emergenza, si dice. Lo si dice, da alcuni per congratularsene, da altri per deplorarlo, per rimpiangere un paese normale che sappia vivere fuori dalla febbre del peggio e del meglio. Però forse si dovrebbe aggiungere, oggi, che l’emergenza e i suoi abusi fanno i conti con uno stato del mondo sul quale la campana è suonata già per la terza volta.
Se fosse vero che noi, e gli umani in genere – perché quello che è vero per noi è largamente vero per gli altri – fossero capaci di dare il meglio nel mezzo di un disastro e di un allarme, ebbene, è lì che siamo, benché non basti ancora a farcelo sentire vicino com’è. Vuol dire questo, la conversione “ecologica” della politica o delle private abitudini. Nei giorni dell’Aquila si è staccato dall’Antartide un iceberg “grande come la Giamaica”, hanno scritto i trafiletti: e siamo andati a controllare quanto è grande la Giamaica, sperando di trovarla più piccola possibile. E la guerra, e le guerre?
Lasciatemi dire una cosa. Le persone all’Aquila, e ancora di più quelli che ci arrivavano da fuori, dicevano: “Era come la guerra”, “Come un bombardamento a tappeto”. Qualcuno ha osservato che il terremoto fa più paura della guerra, del bombardamento. In Italia le persone che hanno conosciuto una guerra sono ancora molte, ma diventano sempre meno. Qualcuno è andato a vederla in giro per il mondo. Non occorreva andare lontano: per esempio, appena ieri, a mezz’ora di volo dall’Abruzzo. Non so se faccia più paura un terremoto o un bombardamento aereo: gli uomini non fanno che emulare la natura, anche nello spavento. E la terra trema anche sotto le bombe. So che “la guerra” significa che contemporaneamente cento città come L’Aquila sono distrutte come L’Aquila. Pensiero difficile da pensare e sopportare, vero?
Nei giorni del terremoto, succedeva che Obama, proprio nella piazza del Castello di Praga, ritrovasse il coraggio di nominare il disarmo nucleare. Una temerarietà, piuttosto: perché la terra è un colossale arsenale nucleare di guerra, e la proliferazione interdetta non fa che crescere, e le parole di Obama erano appena state sbeffeggiate dal lancio semiserio del missile nordcoreano (scherzi che possono fare molto male, però), e India e Pakistan giocano a loro volta con quel fuoco, e l’Iran…
Ecco: sono le nostre metafore quotidiane, lo tsunami, la guerra, il terremoto. Poi ci sono le guerre vere, i terremoti veri, gli tsunami veri. Non si può immaginare di vivere in una mobilitazione permanente da tempo di guerra o di terremoto, chi abbia la provvisoria fortuna di esserne risparmiato. La vita reclama i suoi diritti. Ma non si può nemmeno far finta che esista una vita “normale” fatta di ingorghi stradali e Grande Fratello, salvo sospenderla – gli ingorghi no, il Grande Fratello – quando le macerie tracimano. E la politica? La politica campa, vivacchia, o ingrassa, da molto tempo su emergenze di dettaglio o vere a metà, dunque false del tutto. Fa le facce, incarica, rimuove, si pavoneggia, ci scherza su, perfino.
La politica seria ha da misurarsi con l’emergenza universale, e non ha bisogno di inventare nuovi strumenti per rilevare il radon predittore: le basta mettere l’orecchio sul suolo, e sentire l’eco di quello che è già successo.
P.S. Noi amiamo i bambini e i cani, no? Siamo contenti che i bambini amino i cani. Sappiamo che i cani, quando non siano pervertiti da cattivi maestri, amano i bambini. Avevamo avuto il cuore stretto per i bambini e i cani di Ragusa, abbiamo avuto il cuore stretto per i bambini e i cani dell’Aquila. Sono state due lezioni esemplari.
di Adriano Sofri