Dickens e Conrad (Amori di Carta)

Dickens si sente quasi dappertutto nell’opera di Conrad, spesso anche soltanto nel tono della narrazione, nel modo di commentarla, nell’ironia, ma la sua presenza è particolarmente evidente  ne L’agente segreto e in Chance, romanzi scritti in parte contemporaneamente e in cui compare Londra, “città enorme, mostruosa, popolata più che alcuni continenti”*, capitale dell’impero, centro e il simbolo della vita disumanizzata dell’era dell’industrializzazione. È una Londra che Conrad ha imparato a vedere attraverso Dickens – soprattutto, ma non solo, quello di Bleak House: città di vicoli, bassifondi e di parchi e di larghissime strade, di slums e di imponenti palazzi, di banche e di uffici e di covi di rivoluzionari, di nebbie e di fango ma anche di oro, affascinante per la varietà della sua umanità e terribile nello stesso tempo.
Eccola come appare, per esempio, nel II cap. dell’  Agente segreto di Conrad.

Carrozze passavano sobbalzando, per lo più brougham a due, e, qua e là, una victoria con la pelle di non so che fiera dentro e la faccia a il cappello d’una signora sbucanti da sopra il mantice abbassato. E, su tutto questo, splendeva la gloria di un sole tipicamente londinese – a proposito del quale non v’era nulla da eccepire se non che pareva iniettato di sangue, – galleggiante ad altezza moderata sull’Hyde Park Corner con un’aria di puntuale e benevola protezione. In questa luce diffusa, nella quale non v’era né muro né albero né bestia né uomo che gettasse ombra, perfino il selciato sotto i piedi del signor Verloc si tingeva d’oro vecchio.
(….)
“Il signor Verloc marciava ora lungo una strada che si poteva a buon diritto chiamare privata. Larga, vuota e lunga com’era aveva la maestà della natura inorganica, di una materia che non muore mai.(…)  E tutto taceva. Ma lontano in prospettiva un carretto del latte sobbalzò con fragore; un garzone di macellaio, guidando con la spericolata nobiltà di un auriga ai giochi olimpici, svoltò bruscamente l’angolo, alto su un paio di ruote rosse; un gatto dall’aria colpevole, sbucando di tra il lastricato, corse per qualche tempo davanti al signor Verloc, e si tuffò in una cantina; e un grosso gendarme, dall’aria tetragona a qualunque emozione come se anche lui facesse parte della natura inorganica, e che sembrava uscito da un lampione, non mostrò nemmeno di accorgersi del signor Verloc.”

Londra è molto presente anche in Chance, dove s’interpone simbolicamente – in termini, va aggiunto, che avrebbero potuto soddisfare anche Marx – tra Marlow e la protagonista Flora, impedendo e rendendo difficile la loro comunicazione:
Ogni momento i passanti ci rasentavano, isolati o a due, a tre per volta; gli abitanti di quella periferia dove la vita scorre spoglia di grazia o splendore, ci oltrepassavano nei loro abiti logori, con le facce incavate, livide, preoccupate o stanche, o semplicemente inespressive, in una cupa corrente priva di sorrisi formata non di vite ma di pure esistenze inconsapevoli, le cui gioie, lotte, pensieri, dolori e persino le speranze erano misere, smorte, e senza alcun valore nel mondo.”
(…)
Così continuammo a tacere nell’odioso frastuono di quell’ampia strada affollata di carri pesanti. Grandi furgoni con carichi altissimi avanzavano ondeggiando come montagne. Era come se tutto il mondo esistesse per vendere e comprare e coloro che non avevano niente a che vedere con lo scambio delle merci non contassero nulla.

Ma in Chance la presenza di Dickens, oltre che nella città in cui si perdono schiacciate le vite individuali, appare soprattutto nel trattamento delle figure femminili. La protagonista, Flora de Barral, figlia orfana di madre di un bancarottiere finito in galera a cui lei è infelicemente devota, viene presentata inizialmente come una figura esplicitamente dickensiana, del tipo della piccola Dorrit o di Nell e varie altre. Conrad lo fa dire a Marlow  (ancora una volta è lui il narratore):

Ricordai quanto mi aveva in precedenza detto la signora Fyne, della scena vista anni prima di De Barral che si stringeva alla bambina accanto alla tomba di sua moglie e più tardi di quei due che camminavano mano nella mano, osservati da tutti, lungo il mare. Due tipi da Dickens – pregni di pathos“.

E però Conrad cita tale modello per opporvisi, svelandone l’aspetto maligno: la falsa coscienza, ancora una volta, non tanto del personaggio, quanto dello schema letterario che lo fissa a un destino di vittima. Con un’acutezza degna di Freud, Marlow (che qui in molta misura è proposto meta-narrativamente quale artefice della storia che narra) raccontando il primo incontro con Flora –  il personaggio, di cui cercherà quasi “come un detective” di ricostruire le vicende – dice:

Appariva infelice. E – non so come dirlo – be’ questo le donava. Quella fronte rannuvolata, quella bocca dolorosa, quello sguardo vago e fisso! Una vittima. E questo aspetto caratteristico la rendeva attraente: un tocco individuale – capisci.”

Giudizio che poi appprofondirà ulteriormente parlando della simile attrazione che anche il capitano Anthony prova per Flora, di cui vorrebbe impossessarsi un po’ come  vorrebbe impossessarsene, sul piano della narrazione, Marlow stesso:

“...l’infelicità di lei rappresentava per lui un’occasione ed egli gioiva mentre la più tenera pietà pareva invadere tutto il suo essere. (…) Era evidente che il mondo l’aveva maltrattata. E anche mentre parlava con sdegno, i segni stessi e l’impronta di questo maltrattamento, del quale egli era così sicuro, parevano accrescere l’inesplicabile attrazione che sentiva per lei. Non era soltanto pietà, ne sono certo. Era qualcosa di più spontaneo, perverso ed eccitante. Gli dava la sensazione che se solo avesse potuto impossessarsi di lei, nessuna donna gli sarebbe appartenuta come questa donna.”

Tuttavia questo personaggio di “vittima” ha in sé anche un aspetto che la rende resistente al suo destino: Marlow la definisce a un certo punto una “vittima rabbiosa” (angry victim) e su questa notazione sarà spinto a ricostruirne la storia come storia appunto di una ricostruzione o recupero di sé. Il personaggio sfugge alla volontà repressiva di possesso da parte dell’autore così come a quella di Anthony (non dissimile anche da quella del suo orribile padre, uomo che aveva dedicato la sua vita al possesso).

Il capitano Anthony, “uomo di solitudine e desiderio“, incapace di affrontare i conflitti della realtà (la terra ferma) e preso – come Jim (di cui condivide la passione per il mare) –  dai propri astratti ideali cavallereschi ed eroici, crede che Flora non lo ami e accetti il matrimonio con lui solo per offrire al padre di cui si prende cura un destino di sicurezza; tuttavia la sposa ugualmente e la porta con il suo orrendo padre, egoista incattivito dalla sfortuna, sulla sua nave Fernandle, per assicurarle appunto tale protezione. Ma, in obbedienza al suo idealismo autoreferenziale, non consuma il matrimonio “per non farle violenza” e si tiene lontano, isolato da lei.
In realtà il suo desiderio si rivela essenzialmente come desiderio repressivo di possesso del suo destino. Nel suo egoismo, che gli consente di vedere se stesso nell’aura eroica di un cavaliere antico, non si accorge della realtà di Flora, non la vede, la ama secondo un amore immaginario, non la considera per come è. Non capisce che lei lo ama, ma che, ferita dall’infanzia dalla condizione di assenza d’amore in cui s’è trovata a vivere, si ritiene una nullità non degna di amore (unlovable) e perciò vive l’atteggiamento “cavalleresco” di Anthony come un rifiuto che ribadisce la sua antica e dolorosa convinzione. L’equivoco, fondato sulla non comunicazione dei due protagonisti, si scioglierà infine,  in seguito a drammatici avvenimenti e per iniziativa di Flora stessa, e la storia proseguirà poi con sei anni di felicità che la coppia trascorrerà come entro la sfera di un sogno, fuori dal mondo terribile, vivendo
sempre in mare sulla nave Fernadle di Anthony fino alla morte di lui.
Ma a questa fine seguirà un nuovo inizio:  un nuovo matrimonio, finalmente basato sulla piena parità, tra una Flora ormai maturata e serena, uscita definitivamente dal suo ruolo di vittima anche se ancora conserverà qualche tremore, qualche traccia della sua antica cicatrice, e il sottufficiale Powell, un uomo concreto, intelligente e sensibile, che era stato a suo tempo testimone delle drammatiche vicende sulla nave. E sarà Marlow, il narratore-autore della storia, a promuovere con delicatezza tale unione che tramuta il primo lieto fine romantico in premessa per una conclusione più vera, in terra ferma, radicata nella realtà e non più confinata nel sogno.
Ci sarebbe molto ancora da dire a proposito delle altre figure femminili di questo romanzo, anch’esse molto debitrici  a Dickens, ma il discorso si farebbe troppo lungo, e lo evito.
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* Conrad scrive L’agente segreto subito dopo Nostromo  e lui stesso dice nella Nota di prefazione che la prima ispirazione gli era nata proprio dalla città. In precedenza c’era stato lo scenario del “mare, vasta estensione di acque salse, specchio delle collere e dei sorrisi del cielo, superficie in cui si riflette la luce del mondo. Poi, di colpo si presentò da sé l’immagine di una città enorme, di una città mostruosa, più popolata di alcuni continenti, e, nella sua potenza artificiale, come indifferente alle collere e ai sorrisi del Cielo, crudele divoratrice della luce del mondo. V’era qui spazio sufficiente per collocarvi qualunque storia, profondità sufficiente per qualsiasi passione, varietà sufficiente per qualsiasi trama, oscurità sufficiente per seppellire cinque milioni di vite.”

La traduzione del L’agente segreto e della sua Nota prefatoria sono di Bruno Maffi (BUR 1978). Le altre sono mie.

Le immagini.
dall’ alto Pomeriggio a Oxford Circus di T.F Simon (1877-1942)
The Girl I left Behind di Eastman Johnson (1824-1906)
Martire di John Everett Millais (1829-1896)
Ritratto di signora di N. Bogdanov Belsky
(1868-1945)

appendice: Conrad e Shakespeare in Lord Jim (Amori di Carta)

In appendice al post su Lord Jim aggiungo che mi colpì, leggendo questo romanzo, il fatto che Conrad  facesse partire Jim per Patusan portando con sé solo una pistola – ricevuta da Stein, trafficante tedesco in terre coloniali – e le opere complete di Shakespeare. In seguito lessi che anche Conrad quando era sottufficiale sulla nave Palestine nei Mari del Sud aveva con sè l’opera di Shakespeare.

Un dettaglio autobiografico che è anche indizio di una fonte di ispirazione.
In effetti ci sono in Lord Jim vari aspetti che rimandano a Shakespeare: l’isola di Patusan, lontana da ogni rotta e scenario  della signoria di Jim, evoca in qualche misura l’isola di cui è signore (lord)  Prospero nella Tempesta.
E in tutti e due i casi tale signoria si configura anche come allusione al dominio coloniale dei bianchi europei, portatori di pistole e insieme di una cultura/lingua che si ritiene e vorrebbe imporsi come naturalmente superiore.

Prospero tenta di educare l’indigeno Calibano  – che gli ha insegnato da parte sua la bellezza e le ricchezze della sua terra amandolo con ingenuità infantile – ma non ne sa ascoltare né le ragioni né la primitiva poesia, e  vive quella sua selvaggia diversità come irriducibile inferiorità e ingratitudine. Gli rinfaccerà infatti :

Per pietà di te ti portai con fatica a parlare come noi. Passo passo ti insegnavo quando una quando un’altra cosa; e quando tu, selvaggio, non sapevi articolare nemmeno i rudimenti del concetto e farfugliavi appena, impasto di materia bruta, io ti dotai delle parole necessarie a esprimere i pensieri. Ma la tua vile natura, sebbene pronta ad apprendere, aveva in sé ciò che rende impossibile la convivenza a anime bennate. Perciò ti segregai in questa roccia…”
Prendendo per te“, gli urla Calibano, “tutto il resto della lussureggiante isola di cui io ero per nascita il re!” E aggiunge: “Tu mi hai insegnato a parlare la tua lingua, e tutto il vantaggio che io ne ricavai fu questo: che ho imparato a maledire!
Shakespeare come sempre penetra nel cuore del discorso e, pur non prendendo una posizione dichiaratamente anticolonialista, con la sua stupefacente capacità di capire le ragioni di ciascuno, per quanto lontano esso sia dal suo mondo,  rivela la verità circa la relazione tra i due.

Jim, armato di pistola e di Shakespeare, si fa protettore idealista dei miti indigeni di Patusan e ne diventa il Signore – in questo evocando in pallida controluce anche la famosa e terribile, megalomane figura di Kurtz, di Cuore di tenebra. Li ama, ne è amato, eppure, nota Marlow, per lui quegli indigeni restavano “come le figure di un libro” . E ancora: “Pareva amare il paese e la sua gente con una specie di feroce egoismo, con una sprezzante tenerezza.
Il suo atteggiamento non ha la durezza di Prospero verso Calibano, ma è pur sempre quello di chi non riconosce agli indigeni la pienezza di umanità che riconosce ai propri consimili bianchi, per quanto spregevoli. Non a caso quando compare il razziatore bianco Brown, Jim si fida di questi più che del parere dell’amico indigeno che gli consiglia di diffidare e combatterlo.

E qui apro una parentesi per notare un’ulteriore evocazione shakespeariana in questa parte del romanzo: quella data dal gioco di contrasto di bianco e di nero che lega tra loro come in uno specchio il bianco Brown (brown = bruno) dai neri propositi e il candido Jim, che pure nasconde però sotto il suo abito immacolato l’antica macchia del tradimento della Patna. Si tratta di un gioco di riflessi che rimanda in qualche misura a quello messo in scena nell’Otello, dove Jago, il bianco tentatore, nasconde in sé un cuore nero, mentre il Moro ha un cuore candido e però pronto a lasciarsi tentare e contaminare dall’altro.

E infine, sempre a proposito di Shakespeare, c’è la figura di Jim che sotto vari aspetti evoca Amleto.
Questo è visibile soprattutto al momento della sua morte: una morte  cui è spinto dal fantasma del padre – di tutto quell’insieme di valori che il padre rappresenta e di fronte al quale Jim vorrebbe riscattarsi della sua debolezza. È questo fantasma interno che lo induce ad agire secondo un codice d’onore che non ammette incertezze e si richiama agli ideali di un mondo ormai tramontato.
La  morte di Jim è amletica non nel senso generico e comune del termine, ma anche in dettagli precisi. Per esempio: così come Amleto non sospetta che Laerte, allevato nel suo stesso ambiente e secondo gli stessi principii, possa avere avvelenato la punta della spada e viene tradito da questa sua fiducia, anche Jim viene tradito dalla fiducia che ripone nel senso dell’onore di Brown, in quanto membro dello stesso suo mondo.
(E qui Conrad, tra parentesi va aggiunto, penetra a fondo e lascia intravvedere che il vincolo che lega i due bianchi è, sotto l’apparenza degli alti valori, quello ereditario di una colpa che riguarda tutta la civiltà bianca: “un sottile riferimento alla loro consanguineità…; un repugnante sottinteso di colpa comune, di una segreta conoscenza, che era come un vincolo tra le loro menti e i loro cuori.”)

Ma l’aspetto più amletico di Jim sta nel fatto che egli muore senza essere riuscito a esprimere se stesso né a riconquistare il suo onore di fronte al mondo.
Riporto qui di seguito per un confronto l’ultimo discorso di Amleto e l’ultimo incontro tra Marlow  e Jim:
1. “Sono morto, Orazio.(…) Voi che assistete pallidi e tremanti a questo eve

nto, che siete solo comparse o spettatori in questa vicenda, se solo avessi tempo (…) – oh, io potrei dirvi – Ma non importa. orazio io sono morto. Tu vivi. Racconta di me e della mia causa in modo giusto a quelli che non sanno tutto.(…) Oh, buon Orazio, che nome ferito, se le cos

e restano ignorate come ora sono, resterà dopo di me! Se mai mi portasti nel tuo cuore, assentati per un po’ dalla felicità, e resta ancora a sospirare in pena in questo duro mondo, per raccontare la mia storia (…) le vicende, più o meno (…) Il resto è silenzio.” (Amleto Atto V, sc.2)

2. “Ricorderete che quando mi separai da lui per l’ultima volta, ed egli [Jim] mi aveva gridato dietro: ‘Dite loro…’ avevo atteso – con curiosità, lo confesso, e anche con speranza – ma solo per sentirlo gridare ancora: ‘No – niente.’
Ciò allora fu tutto – e non ci sarà niente altro; non ci sarà alcun messaggio, tranne quello che ciascuno di noi può per proprio conto interpretare dal linguaggio dei fatti, che sono tanto spesso più enigmatici del più complicato giro di parole. Egli fece, è vero, ancora un tentativo di esprimersi, ma anche questo fallì (…) Fu sopraffatto dall’inesplicabile
.” (Marlow in Lord Jim)

L’ultima immagine di Jim, filtrata attraverso sguardi altrui, lo mostra cadere in un atteggiamento che pare l’equivalente gestuale dell’ultima famosa frase di Amleto, “il resto è silenzio” :
Dicono che il bianco gettò a destra e a sinistra su tutti quei visi uno sguardo fiero e fermo. Poi con la mano davanti alle labbra, cadde in avanti, morto.”

Marlow dunque, il narratore coinvolto nella sua storia, assume infine per Jim la stessa funzione che ha Orazio per Amleto: come lui, dopo esserne stato a lungo il confidente, prende su di sé il compito di raccontarne la storia, di salvarne il “nome ferito”, portando a conoscenza del mondo ciò che di lui il mondo non può sapere: l’ignota Patusan interiore della sua gloria e del suo disastro.
Ma tutto ciò che Marlow sa di Jim – proprio come tutto ciò che sa Orazio di Amleto – non potrà mai bastare ad esprimere ciò che c’è nel fondo del suo cuore, ciò che Jim stesso “potrebbe dire” ma non sa né può esprimere “perché la vita è troppo corta per quella piena espressione che attraverso tutti i nostri balbettii è (…) la nostra unica e costante aspirazione. (…) Manca il tempo per dire la nostra ultima parola” .
Egli se ne è andato inscrutabile nel suo cuore...” commenterà Marlow di fronte al suo piccolo uditorio.

Jim, nonostante il fascino che esercita sul lettore attraverso l’affetto di Marlow, che in lui vede se stesso da giovane e tutto il mondo di illusioni della giovinezza, da cui prende le distanze anche con rabbia e comunque con mixed feelings, ma a cui non può non pensare con nostalgia,  non è un personaggiopositivo.
In un certo senso quella sua morte – la morte alla quale l’altro suo “padre”, e cioè  Conrad, l’autore, lo destina, non senza aver protratto in continue dilazioni il romanzo ben oltre il progetto iniziale –  segna anche la chiusura e la distanziazione di Conrad rispetto alle idealità romantico-eroiche della giovinezza, pur così pervase di glamour, e il suo definitivo giudizio su di esse.
Egli scompare nell’ombra del sospetto, inscrutabile nel cuore (…) ed estremamente romantico. (…) Ma noi lo vediamo, oscuro conquistatore di fama, strapparsi dalle braccia di un amore esclusivo al cenno, al richiamo del suo esaltato egoismo. Si stacca da una donna viva per celebrare le sue spietate nozze con un vago ideale di condotta. Sarà convinto – del tutto, adesso, mi chiedo? (…) Chissà. Se ne è andato, inscrutabile nel cuore…
Per Conrad la morte è implicita, per così dire, nella falsa coscienza: sia in quella della giovinezza che si crede immortale, sia in quella di tutta la civiltà che sostiene le idealità individualiste romantiche – quella civiltà occidentale che Conrad, ancora per bocca di Marlow, aveva già definito in Cuore di tenebra, la civiltà “dei sepolchi imbiancati”. Non a caso il Jim di Patusan veste sempre di bianco. Ma soprattutto il destino di morte di Jim, sembra dire Conrad, scaturisce dall’intimo gheriglio della sua civiltà e dello stesso cuore di Jim  – simbolizzati da Brown il razziatore e, insieme, da quella famosa pistola datagli dal trafficante e che lui regalerà al capo indigeno, il quale alla fine la userà per finirlo  – venendo incontro, in questo, alla necessità interna di Jim stesso.

Anche qui si nota una corrispondenza  con l’Amleto. Shakespeare costruisce quel suo dramma sotto l’etichetta di “tragedia della vendetta” (un genere allora molto in voga),  ma dilazionando quasi oltre ogni limite l’ attuazione di tale vendetta, ne fa infine un dramma contro la vendetta stessa e il senso dell’onore che la sostiene: ne  mostra il non senso. Anzi di più: Shakespeare attraverso Amleto mostra, quasi direi denuda, il senso solo rovinoso del codice d’onore che la prescrive: tutti muoiono alla fine, buoni e cattivi senza distinzione, e l’intero regno di Danimarca decade finendo in soggezione di un paese straniero.

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Per le citazioni ho usato la mia traduzione.
La prima immagine:  Monaco in riva al mare di C. Friedrich (Berlino, Nationagalerie)
L’illustrazione della morte di Amleto è nelle Tales from Shakespeare di Charles and Mary Lamb, (Philadelphia: Henry Altemus Company, 1901). Tratta da
Clipart Etc

Conrad e la sua lingua di adozione (Amori di Carta)

L’autore che più si avvicina a Dickens nella capacità di riprodurre sulla pagina le atmosfere londinesi è Joseph Conrad (1857-1924). Penso soprattutto a romanzi come L’agente segreto o Chance, dove Londra è presente quasi come un personaggio con le sue vie dense di traffico, con le sue nebbie, le sue bottegucce di anticaglie, i suoi garzoni e i signori in carrozza, il popolo minuto, gli operai, i pezzenti, gli immigrati e i cospiratori.


Conrad non era inglese. Era polacco, e aveva trascorso l’infanzia in parte in Russia, dove suo padre era stato confinato per motivi politici (la Polonia allora era soggetta all’oppressione dell’impero russo e il padre di Conrad era un intellettuale patriota e perciò antizarista). Precocemente orfano di madre, il bambino era poi cresciuto in patria nella grande casa di famiglia, in compagnia di un padre chiuso nel suo lutto, depresso, malato. Un’infanzia solitaria, nella quale, scrive nelle sue memorie (A Personal Record), l’unica consolazione e salvezza furono i libri. “Non so cosa sarebbe stato di me”, annota, “se non fossi stato un ragazzo che leggeva”.
Tra i suoi autori, dice, ci furono Dickens e Shakespeare – in traduzione (spesso la traduzione del suo stesso padre, scrittore anche lui, Apollo Korzeniowski), perché le lingue a lui note, oltre al polacco, erano l’odiato russo e il francese, lingua quasi materna, appresa dalla governante.

Conobbe l’inglese solo quando entrò, ventiquattrenne, nella Marina Mercantile Britannica, dopo un periodo burrascoso passato in parte in mare e in parte in Francia e culminato in un oscuro tentativo di suicidio.
La scelta di imbarcarsi equivalse per lui a una sorta di fuga dalla disgrazia del suo Paese e del padre. Il mare divenne la sua home di espatriato, anzi quasi di “disertore”, avendo abbandonato la Polonia al suo naufragio, un po’ come poi in Lord Jim il protagonista abbandona la nave Patna in procinto di affondare.

Cominciò a scrivere durante gli ultimi suoi anni di mare, intorno ai 34 anni, ancora prima di stabilirsi in Inghilterra – come poi fece, acquistandone anche la cittadinanza  e semplificando, oltre che anglicizzando il suo nome, che era Józef Teodor Nałęcz Konrad Korzeniowski, nel più semplice Joseph Conrad.
E fin dall’inizio scrisse in inglese.

Conrad diceva che gli erano oscure le ragioni per cui l’inglese era diventata la sua lingua letteraria e sosteneva che non c’era stata da parte sua una scelta: “Non io ho adottato l’inglese, ma piuttosto è stato il genio di quella lingua ad avere adottato me“, scrive nelle sue memorie. Lo ripete anche in una lettera a un amico, dicendo: “…questa lingua che io non possiedo, ma mi possiede“. E, sempre nelle memorie, afferma: “Se non avessi scritto in inglese, non avrei scritto del tutto“.  Anche nelle lettere private non usava mai il polacco, ma alternava l’inglese al francese.

Certo tra quelle oscure ragioni doveva aver agito la sua condizione storico-biografica di espatriato, o meglio, di figlio di una patria “sottratta”, di una cultura priva di spazio riconosciuto, spogliata della sua fisicità e ridotta a essere senza voce come un fantasma, o con una voce naufragante. Per vivere e per costruirsi come persona, così come per esprimersi, Conrad aveva dovuto abbandonare il luogo del naufragio e ricorrere a una patria e a una lingua adottive. Il polacco sarebbe restata la lingua della regressione, dei sogni, dei fantasmi, del delirio: la lingua paterna dell’angoscia luttuosa e del senso di colpa. Ne ha lasciato testimonianza la moglie, che diceva di averlo sentito parlare in polacco solo durante le sue malattie, delirando: la prima volta fu durante il viaggio di nozze e lei si spaventò moltissimo perché non capiva che cosa dicesse.

Si può immaginare inoltre che, tra quelle ragioni, ci fosse il fatto che l’inglese rappresentava la lingua della libertà: non solo perché alludeva al modello di libertà che con i suoi ordinamenti civili l’Inghilterra rappresentava in Europa (e specie per un polacco che pativa l’oppressione zarista), ma anche perché era la lingua cui già lo avevano rimandato quelle letture che erano state il suo “spazio segreto” di libertà e il conforto della sua infanzia.

Scrivere in una lingua straniera comporta comunque uno sforzo d’attenzione e un distacco particolari: richiede la traduzione di un mondo in un altro. Questo è forse uno dei motivi per cui Conrad introduce caratteristicamente nei suoi romanzi uno o più voci narranti: in Nostromo, la sua opera più grande probabilmente, i narratori si moltiplicano fino a rendere, attraverso la sovrapposizione delle loro voci diverse, persino difficile riordinare la cronologia degli eventi (quasi un’anticipazione di Bolaño, e proprio in un romanzo ambientato in America Latina!).

“Dove non c’è una forma adeguata per esprimere direttamente le intenzioni dell’autore” – ha scritto Bachtin a proposito della narrazione mediata dalla voce altrui in Dostoevskij, Poetica e stilistica (Einaudi 19689) – “bisogna ricorrere alla rifrazione di esse nella parola estranea.”

Ma non erano solo motivazioni artistiche a spingere Conrad verso tale tecnica polifonica.  C’era anche il fatto che già fin dall’inizio la sua narrazione era stata inevitabilmente  mediata da una voce altrui – quella di una lingua d’altri (“se non avessi scritto in inglese, non avrei scritto del tutto”): una lingua capace di coordinare i ricordi distanziando ed esorcizzando i fantasmi del passato e le ossessioni di colpa attraverso la sua struttura estranea.
Come si fa a sparare un colpo nel cuore di uno spettro, mozzargli la testa spettrale, prenderlo per la sua spettrale gola? A imprese simili ci si butta solo in sogno.(…) non è ancora fusa la pallottola, non è ancora fucinata la spada, non è nato quell’uomo: persino le parole alate della verità vi ricadono ai piedi come pezzi di piombo“, dice a un certo punto in Lord Jim  Marlow, riferendosi all’incapacità di espressione di un personaggio.

Marlow è uno dei personaggi-narratori di Conrad: quello attraverso cui il rapporto tra la scelta di scrivere in una lingua adottiva e quella di introdurre nei suoi romanzi un personaggio narrante appare messo in scena in modo particolarmente suggestivo. È il capitano di marina, inglese fino al midollo, che racconta le vicende di Lord Jim (ma anche di Cuore di tenebra e di Giovinezza, romanzi tutti e due in grande parte autobiografici, e infine di Chance, il romanzo che diede a Conrad la attesa popolarità).

La storia di Lord Jim è nota:
un giovane ufficiale di marina inglese di servizio in Oriente, Jim appunto, viene processato per aver abbandonato con altri ufficiali bianchi la nave Patna, apparentemente in procinto di affondare nell’Oceano indiano con un carico di pellegrini orientali diretti alla Mecca. Jim, che è un idealista pieno di sogni romantici di eroismo, non riesce a cogliere nell’atto di diserzione un segno della propria debolezza, ma si sente piuttosto vittima di un disgraziato concorso di circostanze esterne. Sicché dopo aver affrontato il processo e la condanna per cui viene espulso dalla marina, tenta disperatamente di trovare l’occasione per dimostrare di non essere quello che il suo atto disonorevole lascia supporre, ma quell’uomo d’onore, degno figlio del mondo bianco ai cui codici di valore è stato educato, che lui sente di essere in cuor suo. Il capitano Marlow, colpito dall’aspetto franco di Jim durante il processo e fatta casualmente conoscenza con lui, asseconda il suo bisogno di ascolto e si lascia coinvolgere in un rapporto molto stretto con Jim. Affascinato dalla giovinezza di Jim, in cui riconosce i tratti della propria e, in generale, i tratti più positivi della propria classe d’appartenenza, Marlow cerca di aiutarlo, procurandogli una sistemazione che possa evitargli di diventare uno sbandato. Ma Jim abbandona un posto dopo l’altro, fuggendo sempre più a Oriente, non appena sospetta che la sua colpa sia nota tra i bianchi del luogo. Infine, per l’intervento ancora una volta di Marlow e dell’amico di questi Stein, trova rifugio a Patusan, un’isola della Malesia, lontana da ogni rotta, dove inaspettatamente riesce a realizzare il suo obiettivo. Organizzando la difesa degli indigeni dalle scorrerie dei nemici e dalla prepotenza del vile Rajha locale, si guadagna il generale rispetto e la devozione  della popolazione, diventando il signore (lord) indiscusso, ammirato e amato di quel piccolo mondo, separato quasi come un sogno da quello, ormai per lui impraticabile, della sua cultura d’origine.
Ma quando un fuorilegge bianco, Brown, sbarca nell’isola per depredarla, Jim ancora una volta cade vittima della propria falsa coscienza. Anziché seguire il parere dei suoi collaboratori indigeni, che vorrebbero attaccare e sbaragliare il gruppo di Brown, si fida a torto della parola dell’avventuriero – che in quanto bianco e inglese, è un esponente di quel mondo d’origine, a cui Jim continua, nonostante tutto, a fare riferimento – e lascia che questi abbia via libera lungo il fiume per raggiungere la nave e abbandonare l’isola. In questo modo provocherà la morte del figlio del capo indigeno, Dain Wairis, suo amico, e si macchierà agli occhi dei locali della stessa colpa di tradimento che già lo aveva macchiato agli occhi dei bianchi. A questo punto sembrerà a Jim di non avere altra via d’uscita, per salvare l’onore, che affrontare volontariamente la morte. Strappandosi all’abbraccio della sua donna, Jewel, che vorrebbe trattenerlo – e dunque tradendo e svilendo anche l’amore di lei – Jim si presenterà inerme davanti al vecchio capo in lutto per il figlio, e sarà questi – che un tempo lo aveva accolto come un figlio, a ucciderlo per vendicare la morte di Dain Wairis.

Questa la trama del racconto che viene fatto da Marlow a un suo uditorio ristretto di ufficiali tutti inglesi.
In realtà il romanzo, quasi più che le vicende di Jim, ha per oggetto il rapporto di Marlow con tali vicende e con la persona di Jim: un rapporto che somiglia a quello di un padre con un figlio. Un padre che dà la sua voce al figlio, spesso incapace di dire le proprie ragioni, balbettante, anacolutico o chiuso nel silenzio.

Ma Jim, col suo giovanile idealismo romantico che lo ha portato a scegliere la vita sul mare, è un personaggio in parte autobiografico – non tanto nelle vicende, quanto nel suo intimo essere. Sicché l’adozione che questo rappresentante della cultura inglese fa del giovane sbandato e senza più una casa cui tornare, sembra adombrare l’adozione di Conrad stesso da parte della lingua inglese.

Egli mi seguì docile come un bambino piccolo, con aria obbediente, senza alcuna reazione, proprio come se fosse rimasto ad aspettare che arrivassi io a portarlo via. Per quanto è tondo il mondo (…) egli non aveva un posto dove potesse – come dire? – dove potesse appartarsi (…). Lo guidai verso la mia camera (…). Era l’unico posto al mondo (…) dove potesse abbandonarsi a se stesso senza essere disturbato dal resto dell’universo.
(Marlow, parlando del primo incontro con Jim, in Lord Jim)

Allo stesso modo la Marina inglese e l’Inghilterra avevano costituito per Conrad “il solo posto al mondo” (è lui che così si esprime nelle memorie), quando “non ancora ventiquattrenne”, reduce dalla crisi che lo aveva portato fino a tentare il suicidio (un colpo di rivoltella al cuore, come quello per cui muore  volontariamente Jim) e privo di una patria a cui tornare, aveva trovato rifugio e accoglienza.
Mettendo in scena il marinaio britannico, inserito nella sua cerchia di connazionali, e trasferendo nel suo temperamento, nella sua cultura, e nella sua lingua, la memoria delle proprie più profonde esperienze, Conrad trova la possibilità di dare corpo a un più intimo rapporto con la terra che era divenuta la sua patria elettiva, ma entro la quale ancora aveva l’impressione di essere uno straniero (“io non possiedo la lingua, è essa che mi possiede”).
Marlow introduce Conrad nell’intimità della patria adottiva: è la creatura che assume paradossalmente funzione di protezione e accoglienza paterne nei confronti del suo homeless creatore, legittimando la sua nuova nazionalità di fronte al pubblico inglese.

(So che avevo iniziato parlando della influenza di Dickens. Riprenderò il discorso più avanti – se ce la faccio:-).

Il Kurtz originario

Il Kurtz originario, quello in carne e ossa, aveva ricevuto parte della sua educazione in Inghilterra, e – come ebbe la bontà di dirmi – le sue simpatie restavano collocate dalla parte giusta. Sua madre era per metà inglese e suo padre per metà francese. L’Europa intera aveva contribuito alla formazione di Kurtz; e un po’ alla volta venni a sapere che, molto a proposito, la Società Internazionale per la Soppressione delle Usanze Selvagge lo aveva incaricato di redigere un rapporto, destinato alla sua guida futura. E lui lo aveva scritto quel rapporto. L’ho visto. L’ho letto. Era eloquente, vibrante di eloquenza, ma, forse, un po’ troppo sublime. Aveva trovato il tempo per scrivere diciassette pagine fitte fitte. (…) era un bel saggio di scrittura.
Il paragrafo iniziale, tuttavia, alla luce delle informazioni successive, mi appare adesso sinistramente significativo. Cominciava con il dichiarare che noi bianchi, al punto di sviluppo cui siamo arrivati “dobbiamo necessariamente apparire a loro (ai selvaggi) come degli esseri soprannaturali, ci accostiamo a loro con una forza quasi divina”, ecc.,ecc. “Con il semplice esercizio della nostra volontà, possiamo esercitare un potere, al servizio del bene, praticamente illimitato”, ecc.,ecc. A quel punto si librava trasportandomi in alto. La perorazione era magnifica, anche se difficile da ricordare, capite. Mi fece pensare a un’Immensità esotica retta da un’augusta Benevolenza. Mi fece fremere dall’entusiasmo. Era questo il potere illimitato dell’eloquenza – della parola – di nobili parole infiammate. Non c’erano suggerimenti pratici a interrompere il flusso magico delle frasi, a meno che una specie di nota in fondo all’ultima pagina, scarabocchiata evidentemente molto dopo, con mano malferma, possa essere considerata l’enunciazione di un metodo. Era molto semplice, e come conclusione di quel commovente appello a tutti i sentimenti più altruistici, balenava di fronte a voi, luminosa e terrificante, come un fulmine a ciel sereno: “Sterminare tutti questi bruti!”

Una pagina di Cuore di Tenebra (1902), di Joseph Conrad: da sola vale tutto il fragore di Apocalypse Now (passato ieri sera in TV)

Non aveva avvenire

(post aggiornato il 30 luglio 2005)

Nel romanzo di Conrad L’agente segreto, il Professore è un esperto di esplosivi che vive a Londra (siamo all’inizio del secolo XX) e mette la sua scienza a disposizione di chiunque voglia compiere attentati dinamitardi. Il Professore è sicuro di non poter mai essere arrestato: gira infatti con addosso dell’esplosivo e, qualora gli agenti gli si avvicinassero per catturarlo, lui non avrebbe che da azionare il detonatore che tiene sempre stretto nella mano nascosta nella tasca, per compiere una strage.

– Decisiva è la fede di quella gente nella mia volontà di usare questo mezzo – [dice, parlando degli agenti, a Ossipon, uno studente rivoluzionario] – Tale è la loro impressione; una convinzione assoluta. Perciò sono micidiale.
– Persone di carattere ce ne sono anche tra quella marmaglia – mormorò sinistramente Ossipon.
– Possibile. Ma è tutta una questione di gradi, giacché, per esempio, a me non fanno nessuna impressione. Perciò sono inferiori. Né potrebbe essere diverso. Il loro carattere è costruito su una moralità convenzionale. Poggia sull’ordine sociale. Il mio è e si conserva libero da artifici. Loro sono impastoiati di convenzioni di ogni sorta; dipendono dalla vita che, per questo riguardo, è un fatto storico circondato da una quantità di inibizioni e considerazioni riflesse, un fatto complesso e organizzato, aperto ad attacchi in tutti i punti; mentre io mi baso sulla morte, che non conosce restrizioni ed è al riparo da ogni attacco. La mia superiorità è evidente.

Nell’Agente segreto è possibile trovare anche questo discorsetto messo in bocca ad un immaginario vecchio teorico del terrorismo:

Ho sempre sognato un pugno di uomini incrollabili nella decisione di bandire ogni scrupolo nella scelta dei mezzi, abbastanza forti per auto proclamarsi francamente distruttori, spogli della venatura di pessimismo rassegnato che mina il mondo alle radici. Nessuna pietà per nessuna cosa, nemmeno per se stessi, e la morte finalmente messa al servizio del genere umano, ecco che cosa avrei voluto vedere.

Discorsetto cui fa da contrappunto quest’altro, del capo dei servizi segreti francesi con sede a Londra, che ha in mente di portare l’Inghilterra a modificare la sua politica di tolleranza verso gli esuli anarchici, adottando la stessa linea repressiva degli altri stati d’Europa:

Sarebbe meglio tenerli tutti sotto chiave [gli anarchici] Urge mettere in linea l’Inghilterra. Questa borghesia imbecille si rende complice delle stesse persone il cui obiettivo è di scacciarla di casa a farla morire di fame per la strada.[basta mettere “occidente” al posto di “borghesia”, e pare di sentire la Fallaci…]
Il capo dei servizi vuole convincere l’agente segreto protagonista del romanzo a inscenare un attentato clamoroso a Londra, utilizzando per la bisogna i gruppetti anarchici tra i quali è infiltrato:
Una serie di delitti, non soltanto progettati ma eseguiti, in questo paese… Niente da fare… non ci badano più che tanto. I suoi amici [gli anarchici di cui sopra] potrebbero metter fuoco a metà Europa senza influire sull’opinione pubblica nel senso di una legislazione repressiva universale. Non guardano più in là del loro naso, quassù.

Di questo romanzo, bellissimo, mi piace però soprattutto ricordare l’immagine conclusiva:

Anche l’incorruttibile professore camminava volgendo gli occhi alla moltitudine odiosa dei suoi simili. Non aveva avvenire. Lo sdegnava. Era una forza. I suoi pensieri accarezzavano immagini di rovina e di distruzione. Camminava frale, insignificante, logoro, miserabile, e terribile nella semplicità della sua idea, che invocava pazzia e disperazione a rigenerare il mondo. Nessuno lo guardava. Ed egli camminava, insospettato e mortale, come una peste nella strada affollata.

Le citazioni sono tratte dall’edizione BUR del romanzo (1978). La traduzione è di Bruno Maffi.