La vita non è che un’ombra che cammina; un povero attore che s’agita e pavoneggia sul palco per l’ora che gli tocca, e poi mai più lo si sente: è il racconto di un idiota, pieno di frastuono e di furia, che non significa niente
Sono così miracolosamente belli questi versi di Shakespeare, così grande la loro poesia, che uno è spinto a credere che esprimano la filosofia dell’autore. Ma la grandezza straordinaria di Shakespeare sta, tra l’altro, nella sua capacità di rappresentare il punto di vista e la condizione psicologica di personaggi diversi che non sono affatto dei suoi alter ego – anche se lui presta loro la sua capacità poetica di espressione, così come un attore presta ai personaggi che interpreta la propria fisicità e la propria voce e dunque una parte non secondaria di sé, senza peraltro che le vicende, le idee o il carattere del personaggio siano identici ai suoi.
La visione del mondo espressa nei versi citati non è dunque quella di Shakespeare, ma quella che egli attribuisce a Macbeth, un uomo che nel perseguire il potere con ogni mezzo, ha rinunciato alla propria umanità negandola e calpestandola in se stesso e negli altri, e che alla fine della sua tragedia si ritrova nel vuoto.
Nel Macbeth l’idea di umanità (questa sì attribuibile all’autore) non viene proposta esplicitamente attraverso qualche personaggio o azione che la esemplifichi o l’incarni. La si deduce in negativo, attraverso ciò cui i personaggi rinunciano o che violano. Soprattutto la si deduce da Lady Macbeth. In primo luogo, la si ricava, per esempio, dal soliloquio del primo atto in lei cui invoca gli spiriti del male per ottenere da loro la forza di perseguire senza esitazioni l’obiettivo della sua ambizione. Unsex me, chiede: sradicatemi dal mio sesso. Mutate in fiele il mio latte. Cancellate insomma la mia femminilità.
L’umanità dunque coincide, nella visione di Shakespeare, con la parte femminile dell’essere umano: quella che, da un punto di vista maschile, viene considerata debolezza. È capacità di simpatia, di cura, di immedesimazione nella sofferenza altrui: la capacità di sentire il legame che apparenta la famiglia degli esseri umani.
Be a man, “sii uomo”, dice poi Lady Macbeth al marito per incoraggiarlo a compiere il delitto che gli procurerà la corona. Il suo è un invito a prescindere appunto dalla tenerezza e dal senso di umanità (virtù femminili), e a perseguire i propri fini a costo di calpestare gli altri. Come un uomo, appunto.
È interessante a questo proposito vedere come i percorsi di Macbeth e della moglie procedono inversamente tra loro. Sono entrambi ambiziosi: lei con lucida consapevolezza, lui in forma più confusa e reticente. Entrambi dopo il delitto si mostreranno angosciati per il sangue di cui si sono macchiati le mani: lui però all’inizio, nell’immediatezza del gesto compiuto (II Atto); lei alla fine, a distanza dal delitto, prima di togliersi la vita (V Atto).
Lady Macbeth ritiene all’inizio che, una volta sradicatasi dalla sua natura femminile, una volta cioè che si sia fatta tutta uomo, più uomo dello stesso marito, non avrà successivamente alcun rimorso, potrà cancellare dalla memoria l’assassinio, proprio come i guerrieri dopo la vittoria cancellano tranquillamente le uccisioni perpetrate, e potrà godere col marito del bene conseguito insieme.

Di fatto, Lady Macbeth non riesce però mai a spogliarsi del tutto della sua natura femminile (umana). Non a caso, del vecchio re, che lei stessa ha spinto il marito ad assassinare nel sonno, dice: “L’avrei fatto io stessa, non mi avesse ricordato mio padre mentre dormiva…“. È l’uomo, la sua vecchiaia, la sua inermità nel sonno che la paralizzano – non la regalità, il dovere di fedeltà o di ospitalità (concetti legati all’ordine sociale del mondo).
Inoltre, per lei è importante non solo la corona in sé, ma anche l’idea di essere nell’azione insieme con il marito, quasi madre nel suo spingerlo perché emerga dall’oscurità, nel suo generarlo come re. La corona insomma, nella sua immaginazione, costituisce anche il coronamento e il frutto di un sogno di stretta unione coniugale.
Una volta che Macbeth, però, compiuto il regicidio, sempre più si estrania da lei addentrandosi solitario nella sua serie di nuovi delitti, lei si trova sola di fronte all’aborto di quel futuro che si era figurata: il frutto è nato marcio.
Ciò che allora riprende forza in lei è l’orrore per ciò che è stato compiuto. Del re ucciso le ritorna in mente ancora la vecchiaia e il tanto sangue (“Chi poteva immaginare che quel vecchio potesse avere in sé così tanto sangue?”) – quello suo e quello versato poi in seguito. Dei vari assassinati le viene in mente, non Banquo, l’amico di Macbeth, ma la moglie del signore di Fife, uccisa con i suoi bambini. L’orrore maggiore insomma è quello di essersi sradicata, strappata via dall’umanità, di averla uccisa in se stessa.
A questo punto è come se (e qui è la vertigine che donano i testi teatrali Shakespeare: questa possibilità di vedere rimbalzare da un luogo all’altro della tragedia, come in un gioco di specchi, immagini e pensieri) come se dentro di lei si fosse compiuto qualcosa di molto simile al gesto spaventoso da lei immaginato all’inizio per dirsi forte di fronte alle titubanze di Macbeth:
” Io ho allattato, e conosco quanta tenerezza ci sia nell’amare il bambino che mi succhia il latte: eppure io, proprio mentre mi guarda e mi sorride, io gli strapperei il capezzolo dalle tenere gengive e gli farei schizzare il cervello dalla testa, se solo lo avessi giurato!
Questo non può che portarla alla perdita della ragione e al suicidio.
Per quanto riguarda Macbeth, ciò che lo frena all’inizio, invece, non è tanto lo scrupolo per la disumanità del gesto che si propone, quanto il timore di venir meno all’onore. In quanto guerriero Macbeth ha già ucciso. Da uomo. Tali assassini non contano però per la sua coscienza: non sono crimini, ma atti di onore all’interno del sistema di valori di una società guerresca, tipicamente maschile. Un sistema di valori che dà ordine e senso al mondo.
Uccidere il proprio re, cui si è giurata fedeltà, è invece un crimine: non però perché la vittima sia un uomo, un vecchio che somiglia a un padre, ma perché appunto è il re. Si tratta di un atto contro l’onore.
Alla vigilia dell’uccisione Macbeth si figura le possibili conseguenze per il suo onore appunto, e vorrebbe quasi riuscire a commettere il gesto dissociandosi dalla mano che lo compie, chiudendolo in una specie di frattura del tempo che possa rimarginarsi senza lasciare traccia. Poi, una volta commesso il delitto, superato il primo sgomento, ciò che lo domina è la paura di poter perdere ciò che ha acquistato attraverso esso: di nuovo l’onore, ma questa volta inteso solo nel senso esteriore del termine – gli onori dovuti alla posizione conquistata, l’onorabilità di facciata legata al potere.
Sotto il dominio di tale paura entra in un percorso obbligato di successive azioni sanguinarie che lo incatena senza possibilità di scampo.
È all’apice di questo suo percorso che infine si ritrova svincolato da ogni residuo legame col genere umano e fuori dall’ordine del suo mondo. Si ritrova insomma, non nel tormento del rimorso, ma nella nuda e disperata ferocia, e nel vuoto di una solitudine assoluta dove la vita perde ogni possibile senso.