A Private View

Doveva farsi una ragione del fatto che non esisteva consolazione.
Non era un credente: i conforti della religione gli erano stati descritti, ma davano piuttosto l’impressione di tormenti. L’idea di essere colto da un rapimento ultraterreno, da una segreta comunione, era profondamente allarmante, come un indizio di pazzia. L’esempio poi delle persone religiose, come i repellenti Rogerson, lo aveva allontanato per sempre. Preferiva un modesto stoicismo, che considerava essenzialmente laico. Questo comportava una scrupolosa attenzione ai compiti di ogni comune giornata, e la buona coscienza che talvolta gli accadeva di sentire alla fine di una giornata siffatta. L’arte era una cosa diversa, particolare, separata; non c’era alcuna possibilità di armonizzarla con un qualche vago impulso verso l’amore. L’arte, e con tale termine lui intendeva la pittura e la letteratura, un po’ meno la musica, forse, risvegliava in lui l’intuizione di un mondo al di là del suo piccolo mondo. Le grandi idee, i nobili argomenti, gli aprivano la mente e il cuore. Andava nelle biblioteche e nei musei come altri potrebbero andare in chiesa. E ne usciva rimescolato, pieno di ammirazione e rispetto dell’alterità, e grato per le tremende e senza dubbio sofferte energie confluite nella produzione di tali opere, grato anche per la reazione della propria sensibilità. Non sarebbe stato capace di condividere, ma era capace di sentire; e ciò gli bastava. Certi giorni era in grado solo di osservare, ma anche queste osservazioni, del tipo di quelle che potrebbe fare uno studente diligente, facevano sì che provasse un sentimento di rispetto, un rispetto misteriosamente assente in altre circostanze. Egli si considerava un impenitente uomo del ventesimo secolo, senza alcuna probabilità di essere redento da rivelazioni dell’ultim’ora, o meglio, proprio da nessuna rivelazione di sorta.

da A Private View di Anita Brookner, Penguin Books 1995.

LOOK AT ME

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Domenico Feti: Malinconia. Isaac Oliver: Ignoto malinconico

Nelle vechie stampe la malinconia è ritratta di solito come una donna, scarmigliata, sconvolta, circondata da brocche rotte, botti inclinate, libri strappati. Può essere caduta in un sonno inquieto, le membra pesanti, sopraffatta dalla sua incapacità a misurarsi con il mondo, bussola e libro messi in disparte. È molto impressionante, ma la persona a cui fa più impressione è se stessa. Lei è la sua malattia, Duerer la rappresenta vestita di un abito grande, sgraziato, con le ali, una ghirlanda nei capelli arruffati. Ha un cipiglio folle e la circonda un grande disordine di emblemi di studio, di dovere, di sofferenza: una campana, una clessidra, i piatti di una bilancia un mappamondo, una bussola, una scala dei chiodi. Talvolta è raffigurata in mezzo a erbacce invedenti, una ragnatela indisturbata sopra la testa. Talvolta guarda dalla finestra in una notte di luna piena, perché è lunatica. E se la malinconia colpisce un uomo, è certo perché soffre di un amore romantico; lui poserà il braccio rivestito di raso su un cuscino di velluto e fisserà il cielo sotto la piuma ripiegata del suo cappello, o afferrerà un rovo o un’ortica a indicare che non dorme. Questi uomini mi danno l’impressione di posare un poco, a differenza delle donne, la cui melanconia è meno pittoresca. Le donne sembrano in preda a un’afflizione troppo seria per tradursi in parole. Gli uomini sembrano vestiti per l’occasione e sono ansiosi di dare un volto nobile alla loro sofferenza. Il che dimostra che non molto è cambiato dal Cinquecento, almeno in questo senso.”

Chi parla è la protagonista di Guardami, un romanzo del 1982 dell’autrice inglese di origine polacca, Anita Brookner, una storica dell’arte molto apprezzata che, dai suoi cinquant’anni in poi, ha affiancato la scrittura all’attività accademica. I suoi romanzi descrivono generalmente personaggi, per lo più femminili, che non riescono ad inserirsi pienamente nella vita, a conoscerne e praticarne i giochi, e che vivono così come in esilio, impacciati spesso da legami familiari che, mentre appaiono protettivi sono anche soffocanti: persone che temono di finire come le proprie madri, e così puntualmente finiscono, o che si fissano ad un amore non ricambiato quasi solo immaginario.
Guardatemi a me è parso particolarmente interessante perché la solitaria e riservatissima protagonista, che verrà per un certo periodo coinvolta nella vita più estroversa e felice di una coppia di amici (per riceverne un’immancabile delusione), è una donna che, non vivendo niente degno di nota nella sua esistenza, scrive. E scrive racconti brillanti e umoristici.

Quando sento la mia solitudine sommergermi, nascondermi, oscurarmi fisicamente fino a rendermi invisibile, scrivere è veramente il mio modo di farmi sentire. O di rammentare che ci sono, che esisto. E quando ho messo in ordine i miei personaggi, saccheggiando il magazzino delle mie idee, e li ho liberati da tutta la tristezza che posso avere dentro di me, allora posso immergermi in quella corrente che mi porta a scrivere tanto facilmente, una volta cominciato, e mi permette di far ridere la gente. Perché questo è, a quanto pare, ciò che la gente vuole. E se sono abbastanza abile e riesco ad abbindolare critici e docenti, non comprenderanno il mio vero messaggio, che è molto semplice. Se il mio aspetto e il mio modo di essere mi fossero di maggiore aiuto, potrei trasmettere il mio messaggio di persona. “Guardatemi”, vorrei dire. “Guardatemi.” Ma dal momento che in questa faccenda sono abbandonata a me stessa, devo usare sotterfugi e inganni e, con un po’ di fortuna e di abilità, il messaggio non verrà mai decifrato e le mie ragioni per trasmetterlo in questa maniera resteranno oscure.”

(Anita Brookner, Guardatemi, Giano ed. 2002, traduzione di Amina Pandolfi)