Rileggevo qua e là Pasolini questa estate, spinta da un riparlare 
che si era fatto in Tv della sua morte e del caso di Petrolio (vedi anche qui e qui), e pensavo che nel tempo ho finito col preferire il Pasolini saggista (le sue recensioni di libri, Empirismo eretico, gli articoli) rispetto all’autore di versi – e, tra le opere in versi, con l’ apprezzare di più Trasumanar e Organizzar, la sua raccolta più prosastica, che le altre raccolte, fatta eccezione per le sempre bellissime poesie in friulano. Eppure non posso fare a meno di pensare a lui essenzialmente come a un poeta.
Così infatti lo avevo conosciuto, e quasi direi riconosciuto, al mio primo incontro con un suo libro, che però non era affatto di poesie. Si trattava di Una vita violenta, e io ragazza (erano gli anni Sessanta) lo avevo letto segretamente per curiosità adolescenziale, spinta dal clamore e dallo scandalo suscitato dal precedente Ragazzi di Vita. Mi aspettavo una lettura pruriginosa, persino magari disgustosa, e invece mi trovai ad esclamare da sola ad alta voce e quasi con le lacrime agli occhi: “Ma questo è un poeta! È un poeta!” . Bella scoperta, si potrebbe obiettare. Ma va detto che, pur avendo visto circolare per casa in precedenza il volume dalla copertina grigia intitolato Le ceneri di Gramsci, non lo avevo mai sfogliato (ero quasi una bambina allora) e poi non ci avevo più pensato.
Lessi solo in seguito le vere proprie poesie di Pasolini e mi ci innamorai, con la stessa passione con cui mi ero in precedenza innamorata di Amleto. La qualità della passione era la stessa, voglio dire: aderivo acriticamente ai suoi versi, come in una sorta di identificazione con l’autore – e non senza lo stesso imbarazzo provato per Amleto, cioè con la consapevolezza di un eccesso, di un’inadeguatezza del mio tipo di approccio.
Negli anni successivi sono riuscita a rileggere le sue cose con un atteggiamento più adulto, ma sempre mi chiedevo che cosa mai tenesse legate nel mio sentimento due figure così diverse, come quella di Pasolini, autore contemporaneo e così vario, e quella del principe danese. Non ne venivo a capo con chiarezza, anche perché spostavo l’attenzione sull’autore di Amleto, e a quel punto le differenze mi sembravano ancora più notevoli.
Solo ero arrivata a dirmi che probabilmente, a causa dei miei sviluppati neuroni a specchio, tendevo a identificarmi con i personaggi monologanti, con i poeti che dicono io e sembrano aprire al lettore il loro animo come in un colloquio privato e confidente, esponendogli come in uno specchio la loro inquietudine, il loro scontento, il loro furore a volte. Non a caso avevo assimilato ad Amleto anche la figura di Guido Cavalcanti, conosciuta nei versi e poi vista attraverso l’agile e sdegnosa immagine che ne dà Boccaccio nella sua novella, mostrandolo assorto tra le arche di San Giovanni e poi nell’atto di “svilupparsi” dalla cerchia di giovani oziosi che cercano di provocarlo.
Ora, leggendo con ritardo la prefazione di Walter Siti all’ edizione delle opere complete di Pasolini, nei Meridiani Mondadori (1998) finalmente trovo qualcosa che mi chiarisce a me stessa.
A un certo punto, parlando de “Le ceneri di Gramsci”, Siti dice:
<< … il “personaggio” in letteratura (e quindi anche in poesia) è una figura retorica che funziona come una metafora: è cioè una struttura immaginaria con cui la mia struttura empirica (di me lettore) interagisce riconoscendo un’area smantica comune, e dall’uguaglianza di questo sottoinsieme comune sono indotto a postulare una momentanea coincidenza di tutte intere le due strutture (identificazione).>>
E prosegue : <<… i versi di Pasolini ci offrono uno dei più potenti “personagggi” (il “personaggio che dice io”) della poesia italiana di quest’ultimo mezzo secolo. (…) anzi in Pasolini i ruoli della poesia e della narrativa sono scambiati: il “personaggio problematico” sta nei versi e la “visione musicale” sta nella prosa.>>
(in “Pasolini Romanzi e racconti”, vol.I Mondadori,1998, pp XXXIX-XL)
Dunque il legame possibile tra Pasolini e Amleto starebbe nel loro essere entrambi “personaggi” letterari. Entrambi in qualche modo inafferrabili.
Il primo, Pasolini, è una creazione che si completa, per così dire, o rimanda alla figura/presenza reale e sempre mobile dell’autore, al resto che dice – e contraddice – altrove, in altri scritti, in altri “monologhi in prima persona” sotto forma di articoli, di film, di riflessioni in cui sempre si rivolge al lettore o spettatore 
guardandolo negli occhi (i primi piani dei suoi film), come a un suo confidente compartecipe, e non gli dà tregua, sempre lo spiazza, riapparendo ogni volta “più in là”, dove è difficile seguirlo.
Il secondo è una creazione letteraria che, attraverso i monologhi, le confidenze volte “a parte” allo spettatore, le contraddizioni e a volte l’oscurità delle sue parole e attraverso la sua debordante presenza in scena, in enfasi seduttiva di prima persona (io, io, io), assume una sua vita autonoma che valica i confini del testo shakespeariano e delle sue intenzioni. Diventa in un certo senso “autore” di se stesso (come ha detto qualcuno) assumendo continuamente facce diverse, spiazzando anche lui lo spettatore o lettore che l’insegue, e serbando inattingibile il “cuore del suo mistero“.
Ma nella prefazione di Siti ho trovato anche di più, a completare la mia comprensione del perché di questa somiglianza di sentimento che mi suscitano i due. Ho trovato qualche cosa che si riferisce proprio alla scrittura stessa del Pasolini delle Ceneri.
Il ‘personaggio’ delle Ceneri si esprime in versi che costituiscono – uso le parole di Siti – “una delle partiture più ingannevoli e strabilianti di tutta l’opera di Pasolini“. Siti lo dice spiegandolo poi in termini molto simili a quelli da me pensati per il monologo del to be or not to be di Amleto – e qui si tratta allora non più solo di Amleto personaggio (e autore di se stesso), ma dell’autore Shakespeare, della sua costruzione poetica, e di quella pasoliniana.
A proposito del monologo di Amleto, che si pone come argomentazione di una questio filosofica, io avevo scritto in uno mio scartafaccio alcuni anni fa:

Il famoso essere o non essere è il vertice dell’elusività. La sua struttura di ragionamento coerente è simile a un guscio che cerchi di contenere e controllare qualcosa di furioso, di mobile, di incandescente: una colata di lava che va gonfiandosi al suo interno – materia mentale che oltrepassa di molto le argomentazioni espresse.
È la mente al lavoro. Che si difende. Che attraverso le forme razionali e le generalizzazioni, crea le sue trincee. Che distanzia la lava incandescente. Che mente.
Con la litania delle sue interrogazioni, con le volute del suo ritmo, che avanza, si dilata, s’innalza e poi si distende calando in larghi cerchi, che paiono svilupparsi l’uno dall’altro, il monologo ha un che di incantatorio che ammalia.
Ci si sente trascinati dal guscio musicale del ragionamento, come da una barchetta che porti fin sull’orlo del vortice senza tuttavia mai lasciarsene rapire, e, alla fine, non appena si tocca nuovamente terra, ecco che si vorrebbe riascoltare tutto dall’inizio per scoprire in che punto qualcosa ci è sfuggito.
Perché questa è l’impressione finale: che qualcosa ci sia sfuggito.
È Amleto che è sfuggito a se stesso. Sfuggito anche sintatticamente, eliminando la prima persona, rendendo il suo personale conflitto – il suo stesso dolore – impersonale dilemma ed eliminando dal proprio discorso sia l’evocazione esplicita del suicidio sia quella della vendetta.
Amleto è sfuggito nella sua molteplicità.
E Siti a proposito delle Ceneri di Gramsci scrive:
<<… sono una delle partiture più ingannevoli e più strabilianti di tutta l’opera di Pasolini: le “indicazioni di lettura” sono così scoperte che ai critici migliori è sempre rimasta l’insoddisfazione – il segreto dev’essere altrove.
(…) la griglia degli endecasillabi e delle terzine, nel suo pascolismo neo-classico, accentua l’impressione di una struttura formale rigida sotto cui fermenta la vita senza coincidervi. Tanto più che la rigidezza, appena è posta, è contraddetta da un affollarsi di rime interne, paronomasie, eccezioni che la sgretolano. (….) Analogamente, sul piano sintattico, le ampie volute di subordinazione sembrano al servizio della complessità argomentativa, (…) ma finiscono per avvolgersi come rampicanti su un sostegno, annullando di fatto ogni gerarchia e mettendo in forse la certezza dei riferimenti. (…) Le inversioni, la vaghezza delle preposizioni, le posposizioni del verbo rendono difficilissimo capire che cosa va con che cosa: (…) La ‘spinta in avanti’ discorsiva è annullata dal polverio di iterazioni, che come note musicali lievemente ipnotiche tengono l’aria in sospensione.>>
(in “Pasolini Romanzi e racconti”, vol.I, Mondadori,1998, pp XXXVII-XXXIX)
Ecco cosa hanno in comune questi due personaggi/autori letterari che con movimento speculare vivono in una tensione continua tra il mondo della realtà e quello metaforico letterario – entrano ed escono da un teatro-metafora-del-mondo e verso un mondo che si fa metafora teatrale e viceversa: hanno questa smania di ragione, lottano con le armi della ragione per capire e comprendere la vita che resta sfuggente e non si lascia afferrare e incasellare nell’ordine logico. Ma riprovano, ritentano: non si sa se per afferrare la realtà o se per eludere una verità che, se vista, forse è insopportabile.
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Dall’ alto: autoritratto di Pasolini (1946)
Pasolini nelle vesti di un pittore giottesco, nel Decameron
Hamlet di Branagh