Non ho saputo aspettarne la traduzione e ho voluto leggere in questi giorni l’ultimo romanzo di Ph.Roth, Indignation, uscito a settembre.
Come Everyman e Exit Ghost (in italiano Il fantasma esce di scena), anche Indignation ha per tema la morte. Con la differenza però che, mentre i protagonisti dei due precedenti romanzi sono due vecchi, qui il protagonista (e narratore), è un giovane che non ha ancora compiuto vent’anni: Marcus Messner.
Marcus racconta soprattutto del suo diciannovesimo anno, il primo che passa da adulto fuori e lontano da casa, e però anche l’ultimo della sua vita, che verrà stroncata dalla guerra.
La narrazione benché in prima persona, sembra avvenire infatti, proprio come accade in certi film a cominciare dal vecchio Viale del tramonto, da “dopo la morte”.
Ma non è così: Roth è troppo convinto che la morte non sia altro che nulla e, soprattutto, silenzio. La narrazione di Marcus e il suo ripercorrere gli eventi della vita, avvengono in realtà da quella zona incerta e sospesa di incoscienza e non-vita, attraversata da una straordinaria lucidità di ricordi indotta dalla morfina, che divide la vera e propria vita dalla vera e propria morte. Marcus, il narratore, ritiene tuttavia di essere nella morte, ridotto ad una specie di eternità della memoria e dell’interrogarsi o forse al sognare di cui parlava Amleto. La sua narrazione è dunque anche un estremo tentativo di capire, di venire a capo di enigmi e opacità circa le sue relazioni personali, le sue scelte, le vicende di quell’ultimo anno – tra le quali anche la prima sorprendente e sconvolgente esperienza di sesso e di amore – e in generale l’occulta rete di relazioni tra il passato e il presente, il ruolo del caso nelle vicende di destino, e quello devastante della grande Storia entro le storie individuali. Nel fondo, oltre al rapporto del giovane con una società ipocritamente repressiva (esemplificata dal conservatore Winesburg College che il ragazzo frequenta), la decisiva e onnipresente relazione conflittuale col padre.
È un macellaio kosher di Newark il padre di Marcus. È l’uomo che Marcus ha adorato e mitizzato nel corso dell’infanzia e della prima adolescenza: quello che gli ha insegnato, insieme con l’amore per il mestiere, per fare bene ciò che occorre fare, anche la fiducia nelle proprie capacità e soprattutto in quella di poter controllare il proprio destino.
Quest’uomo, così apparentemente equilibrato, tuttavia, non appena Marcus comincia a staccarsi dall’area del suo stretto controllo per frequentare, pur continuando ad abitare in casa, l’Università della città, entra improvvisamente in un permanente stato di ansia e apprensione parossistiche. Come se, una volta uscito dall’area difesa della casa e della bottega – il piccolo dominio che il macellaio, sulla base dell’attenta applicazione delle regole dell’arte, passate di padre in figlio nella sua famiglia, crede di governare con competenza e onnipotenza – Marcus non possa che venire schiacciato dalla casuale, capricciosa violenza e dai rischi del mondo esterno – anzi, dai rischi della vita stessa, perché, come spiega lui stesso al figlio che glielo chiede, la sua ansia “riguarda la vita, dove il più piccolo passo falso può avere conseguenze tragiche”.
Il cambiamento del suo atteggiamento nei confronti del figlio, la voragine di paura incontrollata che all’improvviso è apparsa allo scoperto in quell’uomo creduto forte e visto come un modello, è talmente insopportabile per il figlio, che questi si allontana da casa iscrivendosi a un’Università di uno stato lontano. Da dove infine, venendo espulso per essere entrato ingenuamente in conflitto con i suoi regolamenti e l’ideologia conservatrice e repressiva che vi domina, finisce nel macello della guerra, portando a compimento esattamente il sanguinoso destino che il padre – esperto per mestiere in cose di sangue – nella sua folle apprensione, aveva presentito.
Ora, va detto che Marcus Messner, il giovane protagonista di questo terzo romanzo sulla morte, è un giovane degli anni Cinquanta. La guerra in cui muore è infatti quella di Corea. Egli insomma, non meno di Zuckerman o dell’innominato protagonista di Everyman, è un coetaneo del suo ultrasettantenne autore (e dunque “padre”). Roth, in questo romanzo, pare dunque considerare un se stesso giovane dalla regione di confine con la morte in cui ora lui, per età, si trova. Si potrebbe dire che Roth osservi il suo doppio degli anni Cinquanta come potrebbe osservarlo appunto un padre che, in quanto avviato alla fine, e ossessionato anzi dalla fine, sa che la morte è il traguardo cui quel giovane è votato/dannato – e che la morte comunque, a qualsiasi età intervenga, giunge a spezzare una tensione inappagata di comprensione e di narrazione, senza pacificare, nè tantomeno risolvere le inquietudini o illuminare le questioni sempre aperte della vita.