Ho rivisto in questi mesi estivi, nelle vecchia ma sempre molto bella messinscena della BBC risalente ai primi anni Ottanta, i tre drammi storici di Shakespeare che vanno sotto il titolo di Enrico VI e che si riferiscono al periodo della Guerra delle due Rose – quando cioè le case dei Lancaster e degli York, che avevano rispettivamente scelto come emblema una rosa rossa e una rosa bianca, si contesero a lungo il possesso della corona. Nello scriverli il giovane Shakespeare sceneggiò, per così dire, un testo a suo tempo molto noto di cronache storiche scritto da R.Holinshed (1587), ricavandone delle rappresentazioni così vive e appassionanti da assicurargli un immediato successo presso il largo pubblico dei teatri elisabettiani. Non c’è da stupirsene: anch’io mi ci sono appassionata.
Cosa può trovare di interessante in questi drammi uno spettatore italiano dei nostri tempi, ignaro della storia inglese, studiata a suo tempo solo a grandi linee e priva perciò di un qualche forte potere evocativo?
La rappresentazione lucida e distaccata, priva di edulcorazioni, di un periodo e di un mondo politico privo di alti ideali, basato quasi esclusivamente su intrighi e ambizioni, su alleanze e tradimenti e voltafaccia repentini di fazioni contrapposte. Si vedono in scena i nobili del regno tramare e agire per il proprio esclusivo tornaconto, senza tenere in alcuna considerazione il bene pubblico, e scatenare spedizioni all’estero da cui ricavare prestigio e forza in patria, nonché una tragica guerra civile carica di miserie e desolazione – e non si può fare a meno di riconoscere in tutto questo qualcosa che riguarda anche il nostro tempo.

Qualche esempio: quando una delle fazioni decide di scalzare il Lord Protettore, Gloucester – un ostacolo alle loro trame, in quanto persona fedele al re e relativamente onesta – non trova di meglio, proprio come ancora oggi qui da noi, che organizzare uno scandalo che coinvolga sua moglie: riesce ad attirarla in una seduta spiritica segreta per poi sorprenderla e accusarla di complottare contro la corona. Non bastando questo scandalo, cui seguirà un processo che manderà in esilio la donna, accuserà falsamente e senza prove Gloucester di essersi appropriato di denaro pubblico e, infine, per maggiore sicurezza, dal momento che l’avversario gode ancora dell’affetto del re, lo farà uccidere da sicari nel suo letto, con la raccomandazione di rimettere poi in ordine la camera perché la sua morte improvvisa appaia naturale.
Ma la scena non è sempre tutta occupata dagli affari che si svolgono a palazzo. Ogni tanto emergono le figure del popolo: artigiani, lavoranti di bottega, piccoli proprietari, che fanno petizioni invocando giustizia contro le prepotenze di cui sono vittime (la recinzione delle terre pubbliche, per esempio) e vengono per questo accusati di sedizione. Altre volte essi sono fatti irrompere improvvisamente dalle quinte, dietro le quali si svolge normalmentre la loro vita oscura, fino al centro scena, in mezzo ai signori della corte e di fronte allo stesso re – rappresentanti dell’altra realtà, quella che nei discorsi dei potenti sembra non trovare mai spazio, mare buio che circonda il palazzo e ogni tanto vi appare da qualche squarcio .
Penso per esempio alla scena comica in cui si fa strada fino ai piedi del trono, interrompendo le discussioni astute e feroci dei cortigiani, una folla scomposta ed eccitata, quasi “napoletana” che grida: Miracolo! miracolo! un cieco ha riacquistato la vista! E ben presto, però, dietro opportuno interrogatorio del miracolato e della di lui moglie da parte degli smaliziati nobili, viene fuori che si tratta di una rozza sceneggiata: l’uomo non è mai stato cieco e nemmeno zoppo, come pure finge di essere. Fra le risate degli astanti – tutta gente, come lo spettatore ha ben visto, che non fa che ordire menzogne dalla mattina alla sera e le cui parole sono per lo più false, e ingannatrici – il falso miracolato viene lì per lì unanimemente condannato, non senza divertimento, alla fustigazione. E a questo punto, la scena fino ad allora comica, perché rappresentata attraverso l’occhio sprezzante della classe superiore, viene chiusa da Shakespeare col grido vano della moglie del disgraziato che dice a sua difesa: Ahimé, signore, lo abbiamo fatto solo per bisogno! E si apprende così, senza altri commenti, che mentre a palazzo si lotta e si tramano continue messinscene e falsità per il potere, fuori del palazzo si lotta e si costruiscono poveri e funambolici garbugli per uscire dalle strette della fame e del bisogno.
Shakespeare amava questi contrappunti. Li userà poi con arte davvero grande nell’Enrico IV (di argom
ento cronologicamente precedente, ma scritto successivamente) dove alle scene di corte vengono puntualmente contrapposte quelle d’osteria: ai crimini dei grandi i crimini dei tagliaborse, a specchio gli uni degli altri .
Qui nell’Enrico VI (terza parte) c’è una scena molto bella in cui il re, un giovane debole, bigotto, inadatto a tenere testa alla sua nobiltà, mentre se ne sta ai margini di una battaglia, assorto in sue meditazioni sul peso di responsabilità che grava sulla corona, si trova a essere testimone della duplice e speculare tragedia di un figlio che, cercando qualcosa di cui appropriarsi nelle tasche del nemico che ha appena ucciso, scopre che questi è il padre arruolato nelle schiere avversarie (la guerra è una guerra civile) e di un padre che allo stesso modo scopre di avere ucciso il figlio. Shakespeare, come in un exemplum morale (modulato su quei popolari morality play che erano in voga nei tempi a lui precedenti), alterna qui, intrecciandoli, i commenti del re a quelli dei due disgraziati sudditi.
Ne cito come esempio solo un breve passaggio:
FIGLIO Ora mi odierà mia madre per questo assassinio di mio padre, e, nel suo odio, non sarà mai placata.
PADRE Mari di lacrime verserà mia moglie, per l’assassinio di questo nostro figlio, e non sarà mai placata.
RE ENRICO: Come, per questi casi funesti , sarà mal giudicato il re dal popolo, che nel suo rancore non sarà mai placato!
(Enrico VI, parte terza, Atto Ii, sc.v)
Questi soldati, va detto – e lo apprendiamo anche nei lamenti di quel padre e di quel figlio – venivano arruolati con la forza per combattere le guerre dei loro signori: erano insomma carne da cannone, come li definirà, con un’espressione che rimarrà nel linguaggio comune fino ai nostri giorni, Falstaff nell’Enrico IV (in cui viene rappresentata un’indimenticabile scena di arruolamento con annessa corruzione degli arruolatori che esonerano chi paghi loro opportuna tangente).
I due poveretti della scena citata usciranno di scena maledicendo la guerra: che se la combattano fra di loro!, diranno: per noi ora è finita.

Nella prima parte dell’Enrico VI si assiste inoltre alla rivolta di Jack Cade, una specie di Masaniello del Kent, sostenuto nascostamente dagli York al fine di poter poi approfittare a proprio vantaggio dell’emergenza nazionale intervenendo con l’esercito a sedarla. Ma Cade naturalmente raccoglie consensi in nome di un’aspirazione reale benché farraginosa del popolo a una sorta di regime egualitario e comunista, in cui sia abolito il denaro e tutti possano godere alla pari della ricchezza prodotta.
È una rappresentazione esemplare e limpidissima delle confuse ma profonde ragioni popolari, della loro violenza e insieme della loro implicita debolezza. Viene in mente il Verga della novella Libertà e si amerebbe rivederla in un riarrangiamento in chiave brechtiana. È nel corso di questa rivolta che vengono bruciate le carte notarili e per estensione i libri, le scritture attraverso le quali la classe dominante sancisce i suoi privilegi, e vengono uccisi gli uomini di lettere e i legulei, accomunati, per il semplice fatto di essere alfabeti, a tutti gli azzeccagarbugli che usano la legge, fatta dai padroni, per tenere sottomesso il popolo (ne avevo già accennato anche in un altro post)
Nella seconda parte dell’ Enrico VI compare anche Giovanna d’Arco, priva della sua aureola di santa pulzella 
alla quale noi siamo abituati, e rappresentata invece dal punto di vista degli inglesi. Ma anche qui Shakespeare, con la sua incredibile capacità di dare verità a ogni personaggio, lascia che risulti sia la pretestuosità delle specifiche accuse dei suoi giudici armati, sia l’ambiguità, tutta umana, dell’insolito personaggio di popolana ardimentosa e piena di risorse, a mezza via tra la pasionaria invasata, la strega e la donna che divide con i soldati la vita promiscua di campo. Mostra la giustizia sommaria dei vincitori – essenzialmente un crudo atto di forza – e la vivace reazione di lei alla condanna: è così umanamente desiderosa di scampare la terribile morte che la attende, da preferire perdere l’onore del suo nome e proclamare, inventandoselo, di essere incinta, nominando fra l’altro più di un nome di possibile padre, pur di sopravvivere – tranne poi alla fine, visto vano questo suo disperato tentativo, lanciare la sua maledizione impotente e però carica di disprezzo contro il tribunale dei vincitori.
Ci sarebbe molto altro da dire. Non mancano varie scene toccanti di vera poesia, altre di crudeltà raggelante, e figure eroiche, e intense storie di amori (bellissimo il commiato della regina Margherita dal suo amante, e poi il suo pianto quando le tornerà di lui solo la testa mozzata che stringerà in grembo e tra le braccia, facendo venire in mente Stendhal e Boccaccio).
Resta fortemente impressa nella memoria la figura di questa malmaritata Margherita d’Angiò che attraversa tutta la trilogia, trasformandosi da bella fanciulla primaverile, quale appare nelle prime scene, in regina malcontenta e delusa che lotta come una tigre per mantenere il potere e poi in una belva di estrema efferatezza, per finire, una volta persa ogni cosa, compreso il figlio, nelle vesti di una prefica invelenita da un furioso dolore, che percorrerà con la sua litania di maledizioni anche tutto il Riccardo III – dramma tra i più noti e rappresentati di Shakespeare, e quello con cui si chiude la serie dedicata da Shakespeare alle guerre civili.
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Pubblico qui due video (tratti dalla bellissima versione televisiva della BBC, 1982. La regista è Jane Howell; Margherita è Julia Foster, il duca di York è Bernard Hill)
Nel primo si vede Margherita che assiste con ostentata spietatezza alla disperazione di York, che sta per essere ucciso e a cui ha messo per dileggio una corona di carta in testa e ha dato un fazzoletto intriso del sangue del suo figlio giovinetto, quasi bambino, ucciso poco prima barbaramente.
Nel secondo si può vedere la scena drammatica in cui è il figlio adolescente di Margherita a venire ucciso sotto i suoi occhi dai figli di quello stesso York – e lei supplica invano di essere a sua volta uccisa. Tra i i figli di York si può vedere all’inizio anche Riccardo (il futuro Riccardo III), che si allontana per andare ad ammazzare il re deposto che si trova nella Torre. Margherita, quando vede che nessuno osa ucciderla, lo invocherà disperata, pensando che lui sì, lo farebbe.