attualità di Shakespeare

Tra le opere teatrali di Shakespeare, Cimbelino è da molti considerata una delle meno riuscite. Il grande critico settecentesco Samuel Johnson, finissimo glossatore di Shakespeare, disse addirittura che non valeva la pena di commentarne i vari difetti a causa della sua “unresisting imbecility”. Di simile parere furono poi nel tempo molti tra i maggiori critici fino ai giorni nostri.

Eppure questo Cimbelino offre a noi spettatori moderni alcuni spunti molto interessanti.
La vicenda è ambientata nella Britannia dell’epoca di Augusto: Cimbelino è un re Britanno nominato in antiche cronache. Tuttavia questo non è un dramma storico. È un romance, secondo la definizione attribuita dai critici alle ultime opere shakespeariane.
Noi lo definiremmo una specie di fantasy, situato in sostanza fuori dal tempo storico, pure se mette in scena Britanni e Romani – ma anche, anacronisticamente, Italiani, intesi come rappresentanti simbolici della politica intesa in senso machiavellico.
Efficacemente l’ultima messinscena (2016) cui ho assistito (in dvd) è ambienta in un distopico futuro. Non c’è infatti niente di realistico in quest’opera, e molto di allegorico, di magico, di fiabesco, anche di surreale. Un po’ come nel Trono di spade.
La corte del leggendario Cimbelino, insomma, più che espressione di una determinata nazione e di un popolo, è il luogo simbolico della politica dinastica e dei suoi intrighi, nonché delle guerre che ne conseguono, mentre l’impero romano è il potere idealmente universalistico, rappresentativo di un ordine supernazionale.

La trama principale riguarda storie d’amore, di intrighi, tradimenti e gelosia, interventi magici e soprannaturali; la lotta per il potere, che oppone tra loro i membri della corte in nome dello spirito di dominio e dell’orgoglio di sangue, si manifesta anche nel rapporto tra gli uomini e le donne, fondato su un simile senso di possesso.
Nello sfondo c’è la guerra, dovuta alla volontà dei Britanni di non pagare più il tributo a Roma. I Romani invadono l’isola e inopinatamente vengono sconfitti.
Alla fine, in una grande scena di generale riconciliazione e di agnizioni, tutti si rappacificano e addirittura i Britanni vincitori decidono di propria volontà di pagare ai Romani quel tributo per cancellare il quale avevano combattuto.
Quest’ultima appare come una, forse la più evidente, tra le varie assurdità addebitate a quest’opera.

È difficile però credere che questa incongruenza sia espressione dell’incapacità dell’autore di comprendere quello che anche il più sprovveduto dei suoi spettatori è in grado di rilevare.  Tanto più che (e anche questa viene considerata come una “incongruenza”) i discorsi più fieramente patriottici e bellicosi contro il dominio dei Romani vengono messi in bocca ai due personaggi più crudeli e sciocchi: la perfida regina (una specie di strega-matrigna di Biancaneve) e il suo bestiale figlio, ottuso, violento e fatuo.
Se ne deduce – o a suggerircelo saranno i tempi di brexit e sovranismi in cui oggi viviamo – che l’esaltazione della nazione sia in questo dramma condannata come corrispondente allo spirito di supremazia che oppone tra loro i membri della corte e che si esprime anche nel rapporto geloso di possesso all’interno delle famiglie.
Nell’ottica di riconciliazione, che domina questo come gli altri romances shakespeariani dell’ultimo periodo, è la guerra insomma a essere presentata come una realtà incongrua rispetto all’umanità, e comunque negativa, al di là anche delle sue motivazioni apparentemente patriottiche.
Viene in mente Simone Weil e la sua famosa analisi dell’Iliade come poema della forza.

 

scrivere e leggere

Non scriverò più di questi truci,
dei loro ghigni e delle parolacce
del guasto del discorso civile
– dell’argine aperto al liquame
montante dei sentimenti abietti
– del disastro che, nell’assenza
di ogni opposizione, ci minaccia
la loro esibita tracotanza.

All’amarezza basta la lettura
delle loro gesta sui giornali
e l’eco balorda e soddisfatta,
l’inconsulto plauso di un gregge
che domani si dirà estraneo,
innocente dei suoi stessi mali.

 

il sorriso

Sorriderò. Sorrideranno anche
i poveri, che han sempre sorriso
e persino riso in mezzo ai guai.
Non sarà un dono del governo,
né il digrignar di denti delle bestie
o il ghigno di salme e manichini,
ma una grazia tutta umana,
ricchezza che ci accomuna
attraverso ogni tempo e ogni etnia
e ci accompagna
persino sull’orlo del patibolo.

chi ha orecchie per intendere…

16 «Ecco, io vi mando come pecore in mezzo ai lupi; siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe. 17 Guardatevi dagli uomini; perché vi metteranno in mano ai tribunali e vi flagelleranno nelle loro sinagoghe;18 e sarete condotti davanti a governatori e re per causa mia, per servire di testimonianza davanti a loro e ai pagani.

Matteo 10, 16-18

Per causa mia, dice. Cioè a causa dell’amore verso il prossimo, che secondo Gesù è il comandamento equivalente a quello dell’amor di Dio, e l’atteggiamento da cui si riconoscono i suoi seguaci. Oggi chiamati buonisti.

34 Allora il re dirà a quelli che stanno alla sua destra: Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo. 35 Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, 36 nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi. 37 Allora i giusti gli risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere? 38 Quando ti abbiamo visto forestiero e ti abbiamo ospitato, o nudo e ti abbiamo vestito? 39 E quando ti abbiamo visto ammalato o in carcere e siamo venuti a visitarti? 40 Rispondendo, il re dirà loro: In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me.

Matteo 25, 35-40

numeri

Nei numeri non c’è il cuore, dice
vescovile il ministro, che disprezza
chi i calcoli, odioso, li sa fare.
Lui pertanto, calcolando a naso
col metodo gioioso di Marietta,
ha deciso di trasformare
il pezzente ozioso in un forzoso
e disciplinato consumatore.
E numera in 6 gli anni di prigione
per il vile che, pur beccando gli euro,
a tempo perso lavoricchi in nero.
Di pene per lo sfruttatore
– pardon, datore di lavoro
il ministro, benché loquace, tace.
Ma a buon conto tuttavia va detto
che vuol moltiplicare le prigioni;
così – con una fava due piccioni –
lì per lì risolve anche il problema
di un alloggio per i senzatetto.

reddito di cittadinanza?

I poveri, si sa, sono sospetti
e, specie se terroni, truffaldini
– tanto vero che, ora è ufficiale,
il sinonimo loro è fannulloni.
Vanno smossi dai loro cari ozi
o più banalmente dai divani,
e devono venire sorvegliati
nella loro condotta, non sgarrare
dalle prescrizioni, mostrarsi
attivi e volonterosi, lasciarsi
docilmente governare,
ché l’obolo a loro destinato
sarà condizionato alla morale.

niente paura

Ma dai! che cosa vuoi che sia?
Lascia perdere i giornali!
Ora che i poveri non saran più tali,
si metteranno a spendere quattrini
e faranno girar l’economia.
Di che cosa hai timore?
(altro…)

Meglio tardi che mai

Ecco, tardi, ma infine l’ho capito
perché in tutta la mia vita
d’arricchirmi non mi è mai riuscito: (altro…)

prima impressione

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M’è parsa una notturna riunione
di lunghi cappucci, di fantasmi,
confraternite della Buona Morte
o forse, chi lo sa, del Ku Klux Klan
– prima di decifrarla
questa strana festa o visione
di bianche bandiere senza vento.

l’uovo di Colombo

Era così facile, eppure ancora
nessuno ci aveva mai pensato!
Credere per vedere: basta una legge
e puf! la povertà sarà abolita.
Comincia una nuova era culturale:
il paradiso in terra, qui e ora.

Dovesse fallire – non accadrà, ma
premunirsi è bene –
è pronto, o quasi, 
come subordinata un altro piano
più ambizioso, deciso e radicale,
semplice anch’esso e meno dispendioso:
abolire i poveri, sempre per decreto,
renderli illegali – prima i Rom e i neri,
che in parte già ci siamo,
poi per analogia i meridionali.