Ancora Pasolini

Ripensavo a Pasolini in questi giorni, con dolore e con rabbia. Sentimenti misti dovuti al fatto che di Pasolini si parla prevalentemente in riferimento alla sua morte, e lo si legge poco, quasi solo in riferimento appunto alla sua fine, citando soprattutto gli articoli più famosi pubblicati nell'ultimo suo biennio sul "Corriere della Sera"  (e raccolti in Scritti corsari e Lettere luterane) o il romanzo postumo Petrolio (non so fino a che punto leggendolo, questo).
Pochissimo si parla (fuori dell'ambito degli addetti al lavoro) della sua poesia e ancor meno dei romanzi e dei suoi interventi in veste di critico letterario – Passione e Ideologia, per esempio, con i suoi saggi su Pascoli e i poeti del Novecento, oltre che con il magnifico suo saggio sulla poesia dialettale dell'Ottocento-Novecento (che sarebbe oltretutto importante rileggere, ora che tanti ignoranti blaterano di dialetti);  o Descrizioni di descrizioni, con gli articoli, più estemporanei, relativi alle sue letture di classici e di contemporanei.
Anche dei film si parla poco, nonché dei suoi saggi sul cinema come "lingua della realtà", e di quelli, bellissimi, sulla lingua come questione sociale e politica contenuti in Empirismo eretico – libro ricchissimo di suggestioni, vera cura rivitalizzante per la mente e l'immaginazione –  e rilanciati poi diversamente nel Volgar eloquio.
Si è santificata la sua immagine – o peggio lo si è ridotto a santino: se ne è fatta la figura di un Cristo ormai fissato in immagini da Chiesa o busti da museo, di cui si citano frasi e profezie decontestualizzate,  e soprattutto la morte straziante, appunto – morte la cui causa si va ascrivendo ora ai Pilato, ora ai Giuda, ora ai Farisei, dimenticando o mettendo tra parentesi il suo lungo e poetico camminare per la Galilea tra pubblicani e peccatori, il senso della sua inquietante presenza sulla terra, e il suo contraddire ogni Chiesa.

Ogni volta che si torna a parlare della morte di Pasolini, mi vengono in mente alcuni versi del suo poemetto La Guinea, dove dice: "La viltà avvezza / a vedere morire nel modo più atroce / gli altri, con la più strana indifferenza. Io muoio / e anche questo mi nuoce".
E ripenso  a quanto ne diceva, tempo fa, Roberto Roversi, che (cito a memoria, perché non ricordo più dove l'ho letto) invitava a "liberare Pasolini dalla sua morte": non tanto a chiedere agli altri la fatica di risvegliare una giustizia sopita o distratta, quanto a chiedere a noi stessi quella di rimetterci in discussione, e di tenere PPP come un difficile compagno di strada, con cui discutere ancora, per fare i conti con il nostro tempo.  Leggerlo, insomma:  rileggerlo, ridecifrarne la scrittura, riscoprirne le varie e mobili facce, non fermarsi, non fermarlo nella sua morte e in un significato dato una volta per tutte alla sua scrittura, così ricca di suggestioni e di ambiguità, così contraddittoria e, anche perciò, ancora così viva di energia.

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2 commenti

  1. colfavoredellenebbie

     /  luglio 26, 2010

    Brava Anna!"La morte non è nel non poter comunicare, ma nel non poter più essere compresi."Liberare Pasolini dal 'caso Pasolini' (mistero, enigma o noir) significa rimettere in circolo (critico) le sue idee e le sue parole, non ultima la sua passione.Grazie.

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  2. AnnaSetari

     /  luglio 26, 2010

    Era un cercatore, Pasolini. Ho nominato Cristo in questo post, perché pensavo anche al suo Vangelo secondo Matteo. Ma, più che il martirio, ciò che resta in mente di quel suo ardente Cristo cinematografico è il suo camminare: le lunghe riprese in cui lo si vede camminare, spesso di spalle, come uno che precede solitario, e procede, "zint avant" nonostante tutto – nonostante i tempi "orrendi", visti con disperata lucidità, e il fraintendimento e il rischio di non essere più compreso.

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