Nei primi degli anni 90 del XVI secolo, Shakespeare si accinse ad affrontare in un dramma questa questione: come può un grande paese finire governato da un sociopatico?
Il problema non riguardava l’Inghilterra, dove da più di trent’anni era sul trono una donna di eccezionale intelligenza ed energia, ma da tempo aveva preoccupato gli uomini di pensiero. Perché, almanaccava la Bibbia, il regno di Giuda venne governato da una successione di re disastrosi? Come fu possibile che il più grande impero del mondo, si chiedevano gli antichi storici romani, fosse caduto nelle mani di un Caligola?
Come scenario teatrale del caso in questione, Shakespeare scelse un esempio più prossimo: il breve regno infelice, nell’Inghilterra del XV secolo, del re Riccardo III.
Riccardo, secondo l’idea che ne aveva Shakespeare, in seguito a una miserevole infanzia senza amore e a una spina dorsale deforme che faceva scansare chi lo vedeva, era tormentato interiormente da insicurezza e rabbia. Perseguitato dall’autodisprezzo e dalla coscienza della propria bruttezza – lo si paragona ripetutamente a un cinghiale o a un maiale grufolante – trovava rifugio nell’idea di un proprio diritto, nella impudente fiducia in se stesso, nella misoginia e in una spietata tendenza al bullismo.
Era da questa psicopatologia che, secondo il dramma, emergeva la determinazione morbosa e ossessiva a raggiungere un obiettivo all’apparenza del tutto fuori portata, una carica fuori da ogni ragionevole aspettativa e per la quale non possedeva né un’appropriata qualificazione né in assoluto alcuna attitudine.
Il “Riccardo III”, che si dimostrò uno dei primi grandi successi di Shakespeare, esplora il modo in cui questo mostro perverso e ripugnante riuscì di fatto a raggiungere il trono. Secondo il dramma, la malvagità di Riccardo era facilmente evidente a tutti. Non c’era nulla di segreto circa il suo smisurato cinismo, la sua crudeltà e la sua slealtà, né c’era in lui alcun barlume di qualcosa di riscattabile né alcuna ragione per credere ch’egli sarebbe stato in grado di governare efficacemente la nazione.
Il suo successo nell’arrivare alla corona dipese da una fatale congiunzione di reazioni diverse ma ugualmente autodistruttive da parte di quelli che lo circondavano. Il dramma pone tali reazioni in alcuni particolari personaggi – Lady Anna, Lord Hastings, il Conte di Buckingham ecc. – ma finisce anche con l’implicare che questi personaggi schematizzino il fallimento collettivo di un intero paese. Presi nel loro insieme, essi catalogano una nazione di agevolatori.
Primo: ci sono quelli che credono che tutto continuerà in modo normale, che le promesse saranno mantenute, le alleanze onorate e le istituzioni centrali rispettate. Riccardo è con tale evidenza e così grottescamente inadeguato alla suprema carica di potere ch’essi lo rimuovono dalla loro mente. Si concentrano sempre su qualcun altro, finché è troppo tardi. Non si rendono conto con sufficiente rapidità che quanto sembrava impossibile sta di fatto accadendo. Hanno fatto affidamento su una struttura che si dimostra inaspettatamente fragile.
Secondo: ci sono quelli che non riescono a considerare con chiarezza che Riccardo è cattivo quanto sembra. Vedono benissimo che ha fatto questa o quella azione orrenda, ma hanno una strana tendenza a dimenticare, come se fosse duro e faticoso anche il semplice ricordare quanto egli sia orrendo. Sono irresistibilmente spinti a cercare di normalizzare ciò che è fuori d’ogni norma.
Terzo: ci sono quelli che si sentono spaventati o impotenti di fronte alle intimidazioni e alle minacce di violenza. “Farò un cadavere di colui che mi disubbidisce”, avverte Riccardo, e ai suoi comandi oltraggiosi l’opposizione in qualche modo si affloscia. Vi contribuisce il fatto ch’egli è un uomo enormemente ricco e pieno di privilegi, abituato a fare ciò che vuole, anche quando ciò che vuole viola di ogni norma morale.
Quarto: ci sono quelli che si convincono che possono ottenere vantaggi dall’ascesa al potere di Riccardo. Vedono benissimo quanto lui sia distruttivo, ma sono fiduciosi di anticipare la marea del male o di riuscire a ottenerne qualche profitto. Questi alleati e seguaci lo aiutano a salire da un gradino all’altro, collaborando nel suo lavoro sporco e osservando l’accumularsi delle vittime con fredda indifferenza. Questi sono, come li immagina Shakespeare, tra i primi a colare a picco, una volta che Riccardo li abbia usati per raggiungere il suo scopo.
Quinto, e forse l’aspetto più strano di tutti: ci sono quelli che ricavano un piacere vicario nel dare sfogo all’aggressività repressa, nell’umor nero di tutto ciò, nel dire apertamente il non dicibile. “I vostri occhi lasciano cadere macine di mulino quando gli occhi degli sciocchi fanno scorrere lacrime”, dice Riccardo ai sicari che ha assunto per uccidere suo fratello. “Mi piacete, ragazzi”. Non è necessario guardarsi intorno per trovare persone che incarnino questa categoria di collaboratori. Questi siamo noi, il pubblico, affascinati ogni volta daccapo dalla spavalda oltraggiosità del cattivo, dalla sua indifferenza verso le norme ordinarie dell’umana decenza, dalle bugie che sembrano efficaci anche quando nessuno ci crede, dal potere seduttivo della pura bruttezza. Un qualcosa dentro di noi assapora con gusto ogni minuto della sua tremenda ascesa al potere.
Shakespeare mostra in modo brillante tutti questi tipi di agevolatori al lavoro nella scena culminante di tale ascesa. La scena – in modo piuttosto anomalo per una società retta da una monarchia ereditaria, ma curiosamente tempestivo per noi – è quella di una elezione. Diversamente dal “Macbeth” (che ha introdotto nella lingua inglese la parola “assassination”), il “Riccardo III” non ritrae una violenta presa del potere. Al contrario vi si mostra la sollecitazione di voti popolari, corredata da una fraudolenta esibizione di pietà religiosa, dalla diffamazione degli oppositori e da una grossolana esagerazione di minacce alla sicurezza nazionale.
Ma perché un’elezione? Evidentemente Shakespeare voleva sottolineare l’elemento del consenso nell’ascesa di Riccardo. Non si tratta di un consenso robusto: solo un funzionario municipale e un po’ di sostenitori accuratamente infiltrati gridano il loro voto:”Dio salvi Riccardo, regale sovrano d’Inghilterra!”
Gli altri della folla riunita, per indifferenza o per paura o per l’opinione catastroficamente sbagliata che non ci siano reali differenza tra Riccardo e le alternative, restano in silenzio, “come mute statue o pietre dotate di respiro”.
Il non parlare – il semplice non votare – è quanto basta per portare il mostro al potere.
Le parole di Shakespeare hanno la straordinaria capacità di andare al di là del loro tempo e luogo originali e di parlare direttamente a noi. Nel passato più volte, in tempi di perplessità e di crisi, ci siamo rivolti a lui in cerca delle più fondamentali verità umane. Così è ora. Non pensate che ciò non possa accadere, e non restate in silenzio, non sprecate il vostro voto.
Stephen Greenblatt